il Fatto Quotidiano, 28 dicembre 2015
Il 2015 raccontato in breve dal Fatto Quotidiano, per avere le idee più chiare su chi comanda l’Italia
Il 2015 si è aperto con la tragedia di Charlie Hebdo. Non era stato ancora tolto il sangue dei redattori dello storico giornale francese che già al Fatto discutevamo del modo migliore di portare la solidarietà a quei colleghi falcidiati dalla ferocia fondamentalista. Abbiamo così stampato, unico giornale al mondo, l’edizione straordinaria di Charlie per ben due giorni, vendendone oltre 500 mila copie e destinando il ricavato alla redazione parigina.
Quando il presidente del Consiglio, dal palco della Leopolda, ha additato il nostro giornale tra i quotidiani più invisi al potere, abbiamo pensato a quella scena. E a quello che ci fa compiere ogni giorno il nostro mestiere: stare sempre dalla porta opposta dei poteri costituiti, fossero anche il potere delle armi e della violenza terroristica, e raccontare la nostra versione. Alle parole di Renzi, questo giornale si è sentito appuntare sul petto una medaglia. Perché, in ossequio a una massima fondamentale del giornalismo anglosassone, l’ambizione resta quella di fare i cani da guardia del potere.
Il merito di un giornale si misura su quanto lavoro è stato impiegato per capire i segreti del potere, per svelare quello che tenacemente viene tenuto nascosto, per raccontare le storie indigeste. Se guardiamo al 2015, a quello che abbiamo messo in pagina ogni giorno, oltre la tragedia di Charlie, ci sembra che questo principio sia stato rispettato, che la nostra attenzione sia stata rivolta innanzitutto al governo attuale ma anche a quelli che c’erano prima; a istituzioni “sacre” come la Banca d’Italia o a totem improvvisati come l’Expo. La pervicacia con cui Gianni Barbacetto ha tenuto il conto degli ingressi (tra i più bassi nella storia dell’esposizione), fatto i conti al dettaglio, seguito i comportamenti della procura di Milano, non c’entrano nulla con un atteggiamento preventivo ma risponde al desiderio di capire quali sono, davvero, i fatti. E, in quelli che abbiamo raccontato, anche quando non si sono materializzate vicende giudiziarie, sono emerse le miserie di questo paese, le gesta dei “nuovi mostri” che fanno capolino da una quantità indescrivibile di carte, giudiziarie e non. Carte intrise di scontrini, di intercettazioni, di accordi sottobanco, di diari segreti, di verità rimosse dalla grande stampa come nel caso degli affari spericolati della famiglia Totti legati alle inchieste di Mafia capitale.
Il “sistema” delle banche
Le cronache prenatalizie, ad esempio, sono state occupate dal salvataggio delle banche che ha prodotto la rovina per circa 130 mila risparmiatori. Il caso della Popolare Etruria ha svelato anche un conflitto di interessi tutto particolare che è sfociato in un dibattito parlamentare di cui è stata protagonista la ministra Maria Elena Boschi. La vicenda, però, era stata raccontata già nella scorsa primavera su queste colonne da Giorgio Meletti. Ad aprile si dava conto della defenestrazione dell’ex presidente dell’Etruria, Giuseppe Fornasari, mentre a giugno si raccontava la “banca di casa Boschi” spiegando esattamente il ruolo del padre della ministra, l’ambiente aretino, i rapporti di potere e i tanti conflitti di interesse tra gli amministratori dell’istituto e le realtà economiche destinatarie di ingenti finanziamenti. Senza contare le responsabilità pesanti della Banca d’Italia, salvata da tutti i commentatori politici e giornalisti e recentemente tutelata ancora dal presidente della Repubblica. La stessa banca che, con il suo governatore, Ignazio Visco, nell’ottobre di quest’anno finisce “indagato”, come raccontato da Marco Palombi, nell’inchiesta sulla Popolare di Spoleto. “Un atto dovuto” secondo la procura ma comunque originato da un esposto dopo che il Consiglio di Stato aveva annullato il commissariamento della banca.
Inchiesta chiama indagine
A maggio un’inchiesta a puntate firmata da Antonio Massari, rivela l’esistenza di alcune anomalie nella sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Chieti sulla discarica di Bussi gestita nell’epoca Montedison. Dopo le rivelazioni intervengono la procura di Campobasso, il Csm e il ministero della Giustizia. Un mese dopo, sempre Massari, ricostruisce attraverso una fonte che ha conservato migliaia di mail interne a Poste Italiane, l’esistenza di una squadra di funzionari che “schedava” alcuni destinatari di “lettere civetta”, quelle utilizzate per verificare la qualità del servizio, attraverso il quale si ottengono poi i finanziamenti pubblici. Questa volta intervengono la procura di Roma e il Garante per la Privacy
Dentro quei diari le “cene” di Berlusconi
Poco prima dell’estate tornava il caso delle “Olgettine” di Silvio Berlusconi con le notizie relative al diario di Iris Berardi in cui venivano descritte scene non proprio “eleganti” dentro le stanze di Arcore. La pubblicazione di ampi stralci di quei diari, è stata definita lesiva della privacy dell’ex premier dalla relativa Autority. In ossequio a quella disposizione le pagine della Berardi sono state rimosse dai nostri archivi. Ma la notizia resta intatta, l’atmosfera che avvolgeva allora la più importante carica pubblica del Paese si svela in tutta la sua interezza e la sua gravità politica e istituzionale.
Renzi torna protagonista delle nostre inchieste a luglio quando pubblichiamo gli articoli di Vincenzo Iurillo sulla Cpl Concordia di Napoli. Nelle intercettazioni si leggono le conversazioni tra il presidente del Consiglio e il comandante interregionale della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi in cui l’ex premier, Enrico Letta, defenestrato da Renzi con una manovra interna al Pd, veniva definito “un incapace”. Non al punto, però, da impedire di proporgli la nomina al Quirinale. Al rifiuto di quello, che ha solo 46 anni, Renzi lo fa fuori. La strategia da House of Cards si colora di un machiavellismo casareccio. Anche quando chiama in causa il ruolo centralissimo di Giulio Napolitano, figlio dell’ex presidente della Repubblica.
Gli infiniti segreti di chi comanda
Come nelle conversazioni che emergono dall’inchiesta sui “segreti del potere” che pubblichiamo a partire dall’8 dicembre (e che continua) a firma di Marco Lillo e basata sulle carte dell’inchiesta “Breakfast” di Reggio Calabria, protagonista Isabella Votino, collaboratrice del presidente della Lombardia, Roberto Maroni. Nelle conversazioni della luogotenente leghista, si trova traccia dell’attivismo dell’attuale commissario di Roma, Francesco Paolo Tronca, per ingraziarsi i favori dell’allora ministro dell’Interno, Maroni; la modalità brusca e violenta con cui Berlusconi da un lato si propone, prima delle elezioni politiche del 2013, come futuro presidente della Repubblica e dall’altro minaccia la Lega di “scatenarle contro i giornali”; o, ancora, le telefonate con cui l’attuale presidente del Coni, Giovanni Malagò, chiedeva i consensi del Carroccio per l’elezione che lo vedeva sfavorito contro Pagnozzi promettendo ai “padani” la carica di segretario generale.
Storie di potere e di vita quotidiana nel paese degli accordi sottobanco dove quella ruffianeria “piaciona” e intrigante si connette alle varie forme del potere e le plasma. Costruendo una rete in cui le differenze si annullano, i confini scoloriscono. Che dire del sottosegretario Giuseppe Castiglione, Ncd, che nel corso della propria vita politica salta dalla Dc al Cdu di Buttiglione, da Forza Italia a Renzi ma che non dimentica di restare impigliato negli appalti relativi al Cara di Mineo. Quello per il quale Luca Odevaine, già capo gabinetto di Walter Veltroni al Campidoglio e poi finito nell’indagine di Mafia Capitale, diceva che, visto il giro di affari, era “meglio dell’Ilva” garantendo alla vincitrice dell’appalto, il Consorzio Sisifo, un sapiente mix di Legacoop e coop bianche legate a Comunione e Liberazione, una torta da quasi 100 milioni. Non a caso l’Ncd di Castiglione a Mineo raggiunge il 39% quando in giro per l’Italia non oltrepassa il 3%. L’affare riesce a conciliare la classica commistione, tipica già della prima Repubblica, tra politica, appalti e malaffare con un cinismo di tipo nuovo, capace di speculare indifferentemente sulla vita dei migranti fuggiti dalle guerre.
Uno scontrino li seppellirà
A confronto di tale disinvoltura, il caso degli scontrini che ha riguardato l’ex sindaco di Roma Ignazio Marino e l’allora presidente della provincia di Firenze, Matteo Renzi, sembra una questione da avanspettacolo. Eppure a Marino lo scandalo è costato il posto da primo cittadino mentre il premier se l’è cavata grazie anche all’aiutino della Corte dei conti. Marino e Renzi si sono scontrati duramente eppure su queste pagine le notizie sono state date senza riserve. Le ricevute fiscali che hanno contrassegnato i primi due anni di mandato di Marino sono state pubblicate dal Fatto con gli articoli di Paola Zanca a ottobre. Poi si è dipanata una vicenda triste, in cui hanno pesato più fattori, tra cui il ruolo non indifferente esercitato dal Pontefice, fino alla “cacciata” del sindaco. Più saporite le fatture di Renzi rivelate da Davide Vecchi che in tre anni da presidente della provincia di Firenze ha speso 70 mila euro per le trasferte negli Stati Uniti o 600 mila euro per ristoranti. Nel corso del mandato è riuscito a spendere fino a un milione di euro. Con il corredo di foto e di racconti, tra cui quello del ristoratore fiorentino Lino Amantini, la storia ha contribuito alla rappresentazione dell’Italia godona che si “apparecchia” a colpi di bistecche, affari e cordate. L’Italia dei Berlusconi, dei Renzi, di tutti coloro che, in fondo, governano “senza popolo”, barricandosi dietro leggi speciali, come l’Italicum, per proteggere il proprio castello di carta. Che noi cerchiamo ogni giorno di rendere più trasparente.