la Repubblica, 28 dicembre 2015
Kalinic, il nuovo Batistuta
C’erano ventimila persone allo Stadio Franchi per salutare il colpo Mario Gomez, due anni dopo agli arrivi dell’aeroporto Vespucci si presentano solo un dirigente della Fiorentina e un autista a stringere la mano a Nikola Kalinic, l’erede designato. Nessuna festa, nessuno striscione, solo tanti mah e parecchi boh. Ora che è riuscito a mettere insieme in quattro mesi più o meno i gol che il top player tedesco ha seminato in due anni di Fiorentina, Nikola il freddo ti guarda con un sorrisetto che dice tutto. Ma lui è un ragazzo umile. Per davvero. E quindi premette subito il suo pensiero… «Avevo visto le immagini della festa organizzata dai tifosi a Gomez. Ho anche capito di cosa è capace questa città. Ma lui quell’accoglienza se la meritava. Ha vinto tanto, veniva da un top club, aveva segnato una valanga di gol. No, il paragone non avrebbe avuto senso, la mia è un’altra storia. Io ho fatto di tutto per venire qui. E non mi sono scoraggiato. Non mi aspettavo gli applausi per il mio nome o per i gol fatti. Semmai desideravo quelli per le reti che avrei segnato. E sono arrivati. Come quelli per la squadra e per ciò che stiamo facendo».
Per Gomez la Fiorentina si è svenata. Lei invece pur di venire a Firenze si è abbassato l’ingaggio. Scelta originale.
«Venni a giocare qui con il Dnipro in Europa League. Vidi la città di sfuggita, perché quando vai in trasferta funziona così: a volte nemmeno fai caso a dove sei finito. Ma quelle poche ore mi sono rimaste nel cuore. Come dite voi: colpo di fulmine, no? Ecco. E così quando il mio agente mi ha chiamato per dirmi che la Fiorentina mi cercava ho capito che era destino, un magnifico destino e non ho nascosto il mio entusiasmo. Gli ho detto subito: non perdiamo tempo, digli di sì».
Ma abbassarsi lo stipendio non è da tutti.
«Prima sono andato dal presidente della mia società e gli ho fatto capire che ero disposto a tutto pur di andare a Firenze. Poi ho chiamato il mio agente e gli ho detto che abbassare un po’ l’ingaggio per me non era un problema. Ciò che perdevo nel contratto lo avrei guadagnato in qualità della vita, avendo la possibilità di vivere in una città bellissima e di giocare in una squadra ambiziosa e spettacolare. E queste cose non sono dettagli nella biografia di un uomo e di un calciatore. E poi il campionato italiano per me era un grande obiettivo».
Lei indossa il numero nove. Quello di Gabriel Batistuta.
«E infatti appena ho firmato sono andato su youtube a rivedermi i suoi gol più belli in maglia viola. Roba da matti. E quella rete a Wembley contro l’Arsenal? Beh, comunque sapevo già che qui indossare la maglia col numero nove è una missione speciale, diciamo così».
Da Spalato all’Inghilterra. E poi in Ucraina. Lei qui sta rinascendo.
«L’esperienza inglese non è stata esaltante. Anche perché il Blackburn era una squadra con qualche problema. Ma certi passaggi della vita, soprattutto i meno facili, comunque ti fanno crescere. In Inghilterra ho imparato a combattere. A fare i conti anche col calcio fisico. Per questo non protesto quasi mai. Eppure di falli ne subisco parecchi».
E anche la tecnica non le manca.
«Il calcio che piace a me. Fantasia e spietatezza davanti alla porta. Generosità, fisicità ed egoismo quando serve. Per questo adoro Ibrahimovic, secondo me il migliore».
È vero che quando era piccolo giocava sempre con i più grandi?
«Sì, è sempre stato così. Prima per strada, dove a otto anni mi trovavo a giocare coi ragazzi di dodici o tredici. Poi nelle giovanili dell’Hajduk, dove venivo sempre messo nel gruppo di quelli che avevano qualche anno di più. Non era facile, a volte faticavo un po’, ma col tempo ho capito che questa cosa mi stava facendo crescere».
E immaginare un futuro importante.
«Un bambino gioca a calcio per divertirsi. Certo, i sogni vivono con lui, ma il futuro non è mai una ossessione. E non deve esserlo. Io ero felice di essere riuscito a entrare in una società importante. Il primo ostacolo da superare nella vita di uno sportivo non è quello di sfruttare l’occasione, ma di procurarsela. E per me non è stato facile».
Già, è così. Però ce l’ha fatta.
«E devo dire grazie al mio migliore amico e a suo padre, che mi accompagnava agli allenamenti quando ero piccolo. In casa mia mancava il tempo, ma hanno fatto quello che potevano per vedermi felice».
Dicono di lei che fuori dal campo non sembra un calciatore.
Abito grigio, camicia bianca, nessun tatuaggio. Più un manager della City… «Sì, è vero. Non ho tatuaggi. Ma mica giudico chi li ha. È che ognuno alla fine mette in mostra il suo carattere. Io sono uno tranquillo. Tutto qui».
Sì, ok, ma a 27 anni anche un tipo tranquillo avrà qualche passione oltre al lavoro. Qualcosa che uno non si aspetta.
«No, no. Io sono proprio così».
Vuole dire che Kalinic è un ragazzo tutto casa, famiglia, divano e televisione?
«Ecco, più o meno così. E il problema è che in televisione guardo solo partite di calcio. Infatti mia moglie ogni tanto perde la pazienza e mi dice: “Nikola, ma non puoi cambiare programma? Non ti bastano le partite che giochi e allenarti tutti i giorni?”. In effetti no, il pallone non mi basta mai».
La miglior difesa che ha incontrato qui in Italia?
«Quella della Juventus».
L’attaccante?
«Higuain».
E Mandzukic?
«Un amico, e un rivale leale. Ci sentiamo spesso, in Croazia una volta ci sfidammo fino alla fine per la classifica dei cannonieri. Poi però vinse lui con 17 reti contro le mie 16. Ci scherziamo ancora su».
E di Paulo Sousa cosa dice?
«Un vincente. Glielo leggi negli occhi. Grande motivatore, lavora su ogni dettaglio».
Kalinic, ma secondo lei lo scudetto chi lo vince?
«Noi».
Ci crede davvero?
«Sì. Non è facile, questo lo sappiamo. Ma noi siamo così: andiamo in campo per divertirci e vincere. Questo è il nostro calcio, questa è la Fiorentina».