la Repubblica, 28 dicembre 2015
In tv con «BarLume» e con «Tadà», a teatro in «Una casa di bambola» di Ibsen e al cinema con un nuovo progetto di Piccioni: intervista a Filippo Timi
Delle donne dice: «Non le si abbindola facilmente. Conducono il gioco, instillano sensi di colpa e i maschi ci cascano sempre». Non proprio un pensiero progressista. «Ma scherzo», rassicura con dispettosa ironia Filippo Timi seduto nel camerino che il Teatro Franco Parenti di Milano riserva solo a lui, con un letto “vero”, ovunque gli strampalati oggetti dei suoi spettacoli e in un angolo, un paio di scarpe verdi tacco 12 «perché sono appassionato di scarpe femminili», dice. Attore di culto, regista, scrittore (il libro più bello è Tuttalpiù muoio), in gran forma, Timi ha come sempre in ballo più progetti: il nuovo film di Giuseppe Piccioni, poi l’11 e il 18 gennaio su Sky Cinema 1 le due nuove storie di I delitti del BarLume dai bestseller di Marco Malvaldi, in febbraio per Deejay Tv il nuovo Tadà una striscia in 6 puntate ideata con Massimo Martellotta, ma soprattutto il progetto più ambizioso, che lo occuperà nei prossimi mesi a teatro, a partire dal 27 gennaio proprio al Franco Parenti, Una casa di bambola, il dramma di Ibsen, il più conosciuto in Cina «forse perché parlando di un lui e una lei che stanno insieme, è uguale dappertutto: un casino», dice Timi.
La novità è che nello spettacolo, con Marina Rocco che è Nora, Mariella Valentini, Andrea Soffiantini, nella bella scena rosa di Gianmaurizio Fercioni, dopo due mesi di prove insolitamente aperte al pubblico, Filippo Timi interpreta tutti e tre i principali ruoli maschili e non per narcisismo o per una delle sue audaci riscritture di classici, ma per rivendicare una priorità maschile in un testo da sempre considerato una storia di emancipazione femminile o, come dice la regista Andrée Ruth Shammah: «Per riequilibrare una storia che se la leggi senza pregiudizi non parla di una moglie che sfugge alle grinfie del marito, ma della relazione uomo- donna arrivando al cuore più profondo, là dove tutto è meno innocuo e veniale, le donne più ambigue, violente, gli uomini meno semplici, forse più femminili».
Timi è d’accordo?
«Sicuro. Ibsen è pazzesco, ti porta dentro la coppia attraverso piccoli scarti svelandoti il fondo oscuro dei sentimenti. Leggerlo è entrare in un labirinto vertiginoso, perfino con qualcosa di hitchcockiano».
Che uomini sono i tre protagonisti maschili?
«Molto diversi, io cerco di dare a ognuno un modo di parlare, di muoversi... Il dottor Rank, l’amico, è il tipo che non prende, ma dà. È lui che incita Nora a fuggire a spiccare il volo, ma se dovessi descriverlo direi che è un fiume arido, dove non scorre acqua: ha preso la sifilide dal padre quando era bambino ed è come marchiato, non può avere relazioni, dunque è vergine. Krogstad, il procuratore, per me è come una pietra, è un Helmer, il marito di Nora, ma a cui tutto è andato male. E quanto a Helmer sembra lineare ma è il più complesso. Lo conosciamo come un uomo di merda, il marito padrone, il borghese ipocrita da cui Nora fugge, ma se leggi il testo capisci che non è così. Se Helmer appare ossessivo è perché Nora è una bugiarda. Lo trovo un uomo ragionevole che mi sta insegnando quanto sia bello scindere il cuore dalla testa».
Che vuol dire?
«È come i quadri di Mondrian: il quadratino del rosso della passione deve essere più piccolo del giallo che è la ragionevolezza perché avere il controllo del lato emotivo è una conquista. Sarà che è un periodo che sento forte il desiderio di stare fermo, tranquillo. Forse perché arrivo da sette mesi di tournée l’anno scorso, poi i due mesi per girare I delitti del Bar-Lume
che peraltro è divertente perché c’è un bel clima: ci insediamo tutti a Marciana e alla fine ci sentiamo tutti un po’ elbani».
Novità nei nuovi episodi?
«Diciamo che anche lì ci sono intrecci sentilmental-erotici. Finalmente succede qualcosa con Tiziana, la banconista che insieme alla commissario Fusco, è la donna che fa impazzire Massimo, il mio barista-investigatore, aiutato come sempre dagli amici-pensionati capitanati da Alessandro Benvenuti. Massimo è il quarantenne burbero, mollato dalla moglie, in crisi perché vuole sentirsi ancora un po’ ragazzo. Io avendone 41 me ne frego del ragazzo, accetto di fare lentamente quattro piani di scale e la vita me la godo su altri piani».
Tipo?
«Mi sono trasferito a Milano, amo quello che ho. Ed è un regalo. Sento di stare nella sedia dove voglio stare e questo mi fa felice e mi rende più aperto al mondo. Essere dove voglio essere, mi associa all’Helmer di Ibsen».
Ne fa un uomo probo e onesto, mentre Nora una bugiarda manipolatrice. Non è un po’ troppo? Nelle relazioni uomo-donna c’è anche violenza maschile, sopraffazione, possesso?
«Certo, il maschilismo fa male anche a me che sono maschio. Quando guardo le mie due nipotine e il loro cuginetto penso sempre che quel maschietto avrà più possibilità di fare quello che vuole. E non è così che deve andare. Ma non c’entra con Ibsen, dove nessuno dei due ha ragione, né il maschio, né la femmina. Semplicemente ci mostra cosa succede in una coppia: si ama, si finge, si lotta, si mente... Alla fine quando Nora accusa Helmer di trattarla come una bambola, “per trovare me stessa me ne devo andare”, è lui a dirle prova a cercare te stessa con me, dobbiamo crescere insieme, è una cosa bella. È il modo giusto per vivere una relazione. Magari proprio con l’uomo che mette in discussione se stesso, si mostra più fragile, più debole. Le sfumature sono una ricchezza: se l’uomo diventa un po’ femmina è ok».