la Repubblica, 28 dicembre 2015
Cold case, i delitti insoluti che la scienza risolve dopo 30 anni
È il futuro che bussa al passato. È la scienza che batte l’omertà. Succede nei cold case, i “casi freddi”, i delitti insoluti che oggi, un anno dopo l’altro, si stanno riaprendo.Come accaduto a Torino, qualche giorno fa, dove è stato evidente che ti puoi chiamare Rocco Schirripa detto “Barca”, fare il narcos della ‘ndrangheta e nello stesso tempo il bravo panettiere, sino a incontrare le manette della sezione Omicidi. T’hanno acchiappato a sorpresa su richiesta del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ben 32 anni dopo la notte in cui secondo l’accusa sparasti al procuratore capo Bruno Caccia. T’intendi di farine, non di quel virus elettronico, del cavallo di Troia via Internet che è riuscito a rovinarti.Oppure ti chiami Sabatino e sei stato un detenuto appena uscito in permesso premio. E hai perso la testa per una sconosciuta, una barista di via dei Fulvi, nel quartiere Quadraro di Roma, tanto da aggredirla, e ucciderla: era esattamente il 29 dicembre del 2000 e sette anni dopo sei stato beccato, c’era il tuo Dna sulla scena del crimine.Ti facevi chiamare “Luciano” e dici tu stesso che il carcere ti ha «salvato dalla morte». Però la sera del 26 giugno 1975 avevi 19 anni, e hai sequestrato sulla via per Eupilio una ragazza, Cristina Mazzotti. Lei, ceduta ai carcerieri, è morta in prigionia, e tu, 33 anni dopo, hai rivisto il film della tua vita, quando sono venuti a bussare alla tua porta, alla periferia di Novara, e t’hanno detto che una tua impronta digitale è stata trovata sulla Mini Minor dove viaggiava la vittima: e sullo schermo dell’Afis, il cervellone che cataloga e individua “al volo” le impronte, ti ha illuminato una luce gialla intermittente.Oppure sei “Mister X”, sei “Ignoto 1”, sei un assassino che l’ha fatta franca, sinora. Sei per esempio quello che il 5 gennaio del 1987, sull’altura del Sass Pinì, vicino Cittiglio, hai lasciato il corpo violato di Lidia Macchi, quasi ventunenne, colpita con 29 coltellate. La fortuna non ti ha mai voltato le spalle: per far posto nell’ufficio reperti, nonostante le indagini sui Dna fossero cosa nota, sono stati incredibilmente distrutti gli abiti di Lidia. Anche quei collant indossati al rovescio; e soprattutto gli undici vetrini con i tuoi – sì, i tuoi, dell’assassino – reperti organici, più altri due con frammenti di indumenti della tua vittima. Al tuo posto è stato recentemente messo sotto torchio un ex imbianchino, Giuseppe Piccolomo, uno capace di uccidere a Cocquio Trevisago, sempre nella tua zona, una pensionata, tagliandole di netto le mani, per paura delle tracce del Dna. Però è stato scagionato, quindi resti solo tu, che sei forse il misterioso destinatario del foglio a quadretti che Lidia, cattolica in crisi, portava con sé: «Non so se ci sarà un futuro insieme per noi». Daniela Borgonovo, attuale procuratore capo di Varese, conferma: «L’inchiesta su Lidia Macchi è alla procura generale di Milano, le indagini sono in corso, non importa quanto vecchio sia un fascicolo, l’importante è non mollare, se si apre una pista, uno spiraglio».Era stato l’ex capo della Polizia, Antonio Manganelli, a volere nel 2009 una squadra speciale dedicata ai cold case, l’Udi, Unità delitti insoluti, ma ovunque in Italia i detective non mollano. Bisogna aggiungere un dato storico. Anzi, conviene tornare esattamente alla notte del 26 giugno ‘83, quando secondo l’accusa Mimmo Belfiore, capocosca, e Rocco Schirripa, che diventerà trequartino, un manager del clan, si appostano sotto casa del procuratore capo di Torino. Il primo spara a Bruno Caccia dalla 128 verde rubata, il secondo scende e lo finisce, puntando alla testa. I pentiti incastrano il primo, le indagini moderne il secondo. Ma in quel periodo a Torino c’erano sessanta morti ammazzati l’anno, a Milano e provincia circa centocinquanta. Sparavano allora i terroristi, i criminali, i mafiosi. Oggi è cambiato anche il clima delle calibro 38: a Milano i morti ammazzati non superano i trenta all’anno, ovunque si sono ridotti drasticamente, persino a Napoli. Quindi c’è più tempo per i fascicoli, anche per quelli vecchi.Accanto al fattore tempo, c’è il fattore progressi scientifici.Per Carlo Previderè, genetista dell’Università di Pavia, consulente di casi importanti (l’ultimo quello di Yara Gambirasio che ha portato all’incriminazione del muratore Massimo Bossetti), la differenza sta nella «possibilità, offerta oggi da tecniche molto sensibili, di tipizzare reperti nonostante il Dna sia degradato. Quindi in Italia, ma soltanto nei posti dove i reperti d’epoca sono stati conservati come si deve, si stanno moltiplicando le richieste di rileggere vecchi casi rimasti insoluti. E allo stesso modo in America, con l’Innocence project, si stanno riesaminando numerosi processi, con risultati clamorosi. Perché si liberano uomini condannati ingiustamente, si vanno a catturare i veri responsabili e si comprende meglio dove e come la macchina della giustizia possa aver fallito».Come accaduto a Roma, clamorosamente, con Simonetta Cesaroni, uccisa forse con un taglierino in via Poma il 7 agosto 1990. Dopo oltre dieci anni di buio, contraddizioni e veleni, che in Italia sembrano non mancare mai, alcune nuove tracce – un presunto morso e un Dna maschile sul corpetto – avevano portato nel mirino degli inquirenti l’ex fidanzato, Raniero Busco. Il quale s’era preso una condanna in primo grado, ma poi l’assoluzione totale. Come mai? È l’analisi di quanto successo in questa tragedia a obbligarci alla domanda brutale e necessaria che ricorre in moltissimi casi, e cioè: i titolari delle indagini sono professionisti o dilettanti? Basta un solo dettaglio. Nel fascicolo si legge di una grande macchia di sangue, di tipo A, trovata curiosamente sull’interno della porta della stanza dove Simonetta morì: sia il suo sangue, sia quello di Busco, sono di tipo zero. Quella macchia dunque di chi è? Non lo sappiamo: è stata consumata tutta e oggi non è più processabile per trovare il Dna.In Italia molti delitti “freddi” sono stati scoperti. Come l’esecuzione mafiosa di Carlo Rostagno, o l’omicidio da parte del domestico della contessa Alberica Filo della Torre, e quello di Erica Claps da parte di un giovane serial killer. L’arte di non mollare è diffusa tra gli investigatori. Ma i successi di questi anni potrebbero moltiplicarsi, viene da dire, se facesse bene il suo mestiere anche il semplice addetto alla custodia dei reperti. O se i marescialli potessero spiegare meglio a genetisti, tecnici dell’elettronica e talvolta anche a sostituti procuratori che l’aula dei processi, e la vita e la morte delle persone, sono cose molto diverse dai laboratori. Di sicuro più complicate.