Il Messaggero, 28 dicembre 2015
I 150 anni di Kipling, imperialista dal volto umano
Un ottimo poeta, un narratore dotatissimo, ma soprattutto una figura centrale per comprendere speranze e presagi di sventure della fase di passaggio tra Ottocento e Novecento. Il Regno Unito riscopre e celebra Rudyard Kipling nel 150mo anniversario della nascita (Bombay, 30 dicembre 1865), analizzandone le opere e la vita in alcune monografie appena uscite. Tra i volumi più significativi il saggio biografico di Andrew Lycett (Weidenfeld & Nicolson), che ha poi curato una raccolta di interventi critici (Tauris) mentre Daniel Karlin firma una lunga nota introduttiva a una scelta di versi e racconti proposta in paperback (Oxford) nella quale, tra l’altro, parla di un «imperialista da riabilitare». Nell’ultimo fascicolo della Kipling Society si dice che è stato «il miglior intellettuale indiano di lingua inglese degli ultimi due secoli».
Sembrano ormai lontani i tempi in cui Orwell lo definiva «un insopportabile reazionario» e tornano a prevalere le qualità sotto il profilo artistico che nel 1907 gli fecero vincere giovanissimo il Nobel grazie al successo di Kim. Certo, è impossibile dimenticare che ai suoi occhi la democrazia costituiva «una malattia terribile», ma il giudizio letterario prevalendo su quello politico come già accaduto in precedenza per altri autori controversi. Lycett, del resto, afferma che senza la prosa vitale e innovativa di Kipling – le cui radici indiane rimasero sempre ben salde – il modernismo di Joyce non avrebbe preso forma.
ORIGINE
All’origine del suo imperialismo, spiegano i critici, c’è la volontà di celebrare la silenziosa lotta per la sopravvivenza di migliaia di funzionari coloniali e di soldati, ossessionati dal timore che il loro sacrificio venisse dimenticato nella madrepatria lontana. Attraverso vicende ad alto contenuto metaforico lo scrittore insiste spesso su come il mondo potrebbe essere migliore se coraggio e spirito di disciplina ispirassero ogni atto. Sulla base dei principi a lui cari costruisce una duplice mitologia: da un lato quella della dura battaglia degli inglesi per garantire il rispetto della legge in una terra che spesso rifiuta di riconoscerla; dall’altro quella di un’Asia innocente e per natura anarchica, ricca di un fascino tipicamente orientale. Kipling diventa il portavoce di migliaia di uomini e donne che hanno attraversato l’Oceano e si sentono sperduti in India. Prima di lui nessuno era riuscito a riprodurre sulla pagina con tanta efficacia il caos e gli elementi avventurosi presenti nella vita del subcontinente. Con eccellenti risultati per un giovane con un enorme talento riconosciutogli, tra gli altri, da Henry James che afferma: «Questo ragazzo può diventare il Balzac inglese».
PACE
A differenza di ciò che riteneva Rousseau, per Kipling in natura non esistono eguaglianza e pace, la legge serve a rendere possibile la convivenza tra diversi secondo una precisa gerarchia. Nei racconti intrecciati nel Libro della giungla ogni animale conta perché appartiene a un gruppo, è membro di una collettività superiore a lui che lo ingloba al proprio interno, stabilendo in maniera non equivoca le libertà di cui può godere e i limiti cui deve attenersi. È la sintesi della missione coloniale agli occhi dello scrittore. Che però ha piena consapevolezza di quanto sia fragile l’equilibrio raggiunto al termine del periodo vittoriano con ampio uso della forza. E riesce a intuire prima di altri, a inizio Novecento, che quel mondo rischiava di andare in pezzi, come poi accadde con lo scoppio della guerra durante la quale perde John, l’amatissimo figlio.
Rifiutati ripetutamente i titoli e le onorificenze ufficiali che gli vengono proposti, si chiude nella sua casa in Sussex per lavorare con l’aiuto della moglie all’edizione delle opere complete e alla autobiografia. Nella notte tra il 12 e il 13 gennaio 1936 viene colpito da una emorragia e muore in un ospedale di Londra una settimana più tardi. Le ceneri vengono sepolte nell’angolo dei poeti dell’abbazia di Westminster accanto alle tombe di Charles Dickens e Thomas Hardy, «uomini che come lui – rileva Lycett – rappresentano la miglior sintesi della letteratura britannica di epoca vittoriana».