la Repubblica, 28 dicembre 2015
Il pentimento di Sandro Bondi, l’uomo che un tempo fu servo e che ora vuole solo essere dimenticato
«Parlo ora per la prima volta dopo nove mesi», dice mansueto il freschissimo senatore verdiniano Sandro Bondi già ministro della Cultura precipitato dalla poltrona con un pezzo di Pompei nel 2011 e ex cortigiano naturale e convinto di Berlusconi: «A Silvio, vita splendente...», ricordate i suoi sonetti pro familia? E dopo questa chiacchierata, onorevole? «Tornerò nel silenzio».
Improvviso impulso di vendetta e pentimento, il suo?
«Vorrei tentare una riflessione di carattere storico sul berlusconismo che ho attraversato. E un viaggio tra i miei molti, troppi errori».
Cominciamo da Berlusconi.
«Berlusconi è stato brillante all’opposizione ma deludente se non fallimentare nell’arte di governare e nel portare a compimento quegli accordi politici che avrebbero cambiato in meglio il nostro paese. Non ha saputo esercitare, quando sarebbe stata opportuna, la sua tendenza al compromesso».
Mi aspettavo un giudizio un po’ più letterario.
«Uno ce l’ho. Berlusconi potrebbe essere paragonato al Conte Ugolino che nella Divina Commedia divora il cranio dei suoi figli. E questo riferimento culturale è in fondo lusinghiero, perché lo sguardo di Ugolino verso i figli è di disperazione, mentre quello di Berlusconi è quasi intinto di sadismo. In realtà sono giunto alla conclusione che non vi è alcuna grandezza tragica in lui. Ma vorrei fare una premessa, se me lo permette».
Faccia pure.
«La premessa è che ho chiuso definitivamente con l’impegno politico».
Uscirà di scena a fine legislatura?
«Sì, sono un reduce di tante battaglie e di tante passioni. Mi sento vecchio e superato, oggi che in Italia e in Europa è in atto un grande rinnovamento generazionale di cui Renzi è una delle espressioni».
Faccia un bilancio anticipato in poche righe. Credo possano bastare.
«Sono diventato più maturo, anche se può sembrare paradossale dirlo all’età di 56 anni. E grazie soprattutto al fatto di aver conosciuto una donna intelligente».
Manuela Repetti, moglie e metà della mela politica bondiana. Dal Pci a Forza Italia, da bardo del Cavaliere a ribelle fino a verdiniano con tendenza dem. Non mi sembra un percorso di specchiato equilibrio.
«Vero, ma una cosa me la faccia dire: non sono mai stato di destra. Fabrizio Cicchitto ed io, insieme con tanti altri, in particolare Gianni Baget Bozzo, abbiamo sempre parlato di Forza Italia come di una sintesi fra le migliori tradizioni democratiche non comuniste della storia d’Italia».
Vuole farmi credere che ne era davvero convinto?
«Nel 2009 scrissi perfino un libro per tracciare un legame ideale fra Berlusconi e Adriano Olivetti».
Edito da Mondadori, immagino.
«Esattamente. Ricordo che la figlia Laura, da poco scomparsa, m’incontrò e mi parlò con simpatia, ma mi fece capire con grazia che il mio saggio era quantomeno ardito nei confronti di suo padre. Aveva pienamente ragione».
Lei ha sperato consapevolmente in una utopia politica berlusconiana?
“Sì, e non ero il solo. Ma di tutte queste cose Berlusconi non si curò mai. Ci lasciava giocare con la politica e con le idee, fino a che non toccavamo la sostanza dei suoi interessi e del suo potere. Ricordo che, quando ero ministro, osai parlare di un canale televisivo pubblico dedicato alla cultura senza pubblicità. Subito, il pur mite Fedele Confalonieri mi redarguì bruscamente».
Le aziende venivano prima di tutto?
«Sempre. Al culmine della crisi del suo ultimo governo, Berlusconi, nonostante ciò che disse in seguito, diede il via libera a Monti durante una riunione a Palazzo Grazioli nel corso della quale ci fece preliminarmente ascoltare in viva voce ciò che ne pensavano Ennio Doris di Mediolanum e l’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel. In questo modo eravamo messi sull’avviso della sua decisione».
Ricorda quelle telefonate?
«Molto bene. Entrambi sostennero che la situazione economica e finanziaria del paese era disperata e non vi era altra possibilità che quella di dare vita a un governo tecnico sostenuto anche da Forza Italia».
Sta dicendo che i dirigenti e i ministri del partito non contavano nulla o perlomeno molto meno dei banchieri?
«La nostra autonomia politica era pari a zero. L’unico ad aver avuto la forza e il coraggio di un gesto di indipendenza è stato Angelino Alfano. All’epoca mi opposi a lui, nonostante l’amicizia che ci legava, per l’ennesimo atto di sottomissione a Berlusconi. Pure Fitto e Verdini furono in prima linea contro la scelta di Alfano, ma poco dopo Berlusconi li trattò alla stessa stregua. Mi creda, anche chi è rimasto prima o poi sopporterà questa sorte».
In una pletora di ominicchi lei dipinge Alfano come una sorta di eroe. È il cantore che dorme in fondo al suo animo a guidarla in maniera quasi pavloviana?
«La mia convinzione è che anche Alfano, se non fosse stato maltrattato pubblicamente, avrebbe chinato il capo un’altra volta, ma Berlusconi in realtà non gli diede appello. L’intimazione di uscire dal governo Letta, come risposta alla sua condanna giudiziaria, avrebbe gettato l’Italia nel caos politico, favorendo probabilmente ancor più l’ascesa di Grillo e del suo movimento. Nell’occasione il ruolo di Napolitano è stato fondamentale. È stato lui a guidare l’Italia verso l’uscita dalla crisi. Berlusconi lo ha pregato di restare al Quirinale salvo poi accusarlo di ogni misfatto. Ha richiesto a Napolitano quello che non poteva ottenere e ha rifiutato ciò che invece il Presidente era disposto a riconoscergli».
Ma poi c’è stato il patto del Nazareno.
«Merito di Verdini, che ha aiutato Berlusconi a rientrare in gioco, ottenendo da Renzi un riconoscimento politico non scontato e dovuto. Silvio avrebbe potuto utilizzare quest’ultimo attestato come un’opportunità per lasciare una memoria positiva del suo ruolo nella storia d’Italia, ma l’ha rifiutata e sprecata. Ad un certo punto ho anche pensato che il ritorno del partito-azienda fosse il male minore, perché almeno le sue imprese inseguono una certa razionalità anche nella sfera politica. Oggi Forza Italia è incomprensibile per chi non conosca la vita privata di Berlusconi. Più che la politica, la letteratura e forse la psicologia possono dare un’interpretazione alla sua parabola esistenziale».
Se Dante dovesse mettere Berlusconi nell’infernale lago ghiacciato di Cocito con Bruto, Cassio e Giuda, non dovrebbe riservare un posto anche per lei nella Giudecca, tra chi ha tradito i benefattori? Lei è stato servo, aedo e mammelucco, pronto a dormire sullo zerbino del padrone.
«Sono stato anche questo. Quando forse un giorno verranno pubblicate le mie lettere indirizzate nel corso di vent’anni a Berlusconi, frutto del mio lavoro di consigliere politico, si comprenderà qual è stata davvero la mia figura. Sì, potrei essere accostato a Giuda. Ma chi ha letto il recente e bellissimo libro di Amos Oz, sa che Giuda è stato forse quello che ha preso più sul serio Gesù di Nazaret».
La vedremo prossimamente con Renzi, un’altra croce da portare?
«Io con Renzi e nel Pd? No, grazie. Voglio essere dimenticato».