la Repubblica, 28 dicembre 2015
La riconquista di Ramadi che fa paura al Califfo
Ramadi è una città sul fiume Eufrate, a 110 chilometri da Bagdad. Capitale della provincia sunnita di Anbar, è al centro di una rete di comunità tribali e cuore delle rotte del contrabbando che si estendono verso le regioni orientali. Il suo mezzo milione di abitanti ha dato seri problemi a Saddam Hussein, il dittatore sunnita, e a Washington che lo estromise nel 2003. Negli anni successivi ha continuato a dare problemi anche al governo iracheno a maggioranza sciita.
Lo scorso maggio è stata conquistata dallo Stato Islamico, che dopo una settimana prese anche l’antica città siriana di Palmira. Due vittorie che mostrarono come l’Is, dopo aver perso Kobane a gennaio in una sanguinosa battaglia ed essere stato cacciato da altre importanti località in Iraq, avanzava comunque in altre aree strategiche. “Stallo tattico” come lo definirono ottimisticamente le autorità americane a settembre.
Ora la situazione è più complessa. Sabato un contingente militare composto da curdi siriani e ribelli arabi con l’aiuto dagli aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti, ha strappato un’importante diga a meno di 20 chilometri dal quartier generale dell’Is a Raqqa. Mentre le truppe irachene – sempre appoggiate da raid aerei americani – hanno conquistato il cuore amministrativo di Ramadi: spingendo il ministro degli Esteri italiano a parlare di come l’Is stia perdendo terreno in Iraq.
Siamo dunque a un punto di svolta? Il nuovo impegno politico e militare seguito agli attacchi di Parigi sta dunque ottenendo risultati? Di sicuro il momento è importante quanto basta a indurre Abu Bakr al Baghdadi, il leader dell’Is, a interrompere sette mesi di silenzio. «State certi che Dio farà vincere chi lo onora e gioite alla buona notizia che il nostro Stato va a gonfie vele. Più la guerra contro di noi si intensifica più diventiamo forti e puri», ha detto il califfo ai suoi seguaci: per quanto non sia chiaro quando è stata fatta la registrazione.
Nel Risiko dell’Is capire chi vince e chi perde è però più importante del valutare quale città è stata loro sottratta e quanti uomini sono stati uccisi da entrambe le parti.
Questo perché lo Stato Islamico è fatto di tre elementi. Lo Stato centrale che governa 5 milioni di persone, ibrido fra un governo formale combinato con un sistema terroristico. Una rete di affiliati che si estende dall’Africa occidentale al Sud Est asiatico. E un’ideologia abbastanza forte da spingere mille persone al mese a raggiungerlo o ad attaccare da altre parti. San Bernardino, in California, è un esempio del fascino di questa ideologia, l’attacco più recente e di alto profilo collegato all’Is.
Ma proviamo ad analizzare come vanno le cose per ciascuna di queste componenti. Indubbiamente il Califfato è sotto pressione. Una strada fondamentale, che assicura i rifornimenti e collega Mosul a Raqqa, la base più importante dell’Is in Siria, è stata interrotta quando le forze curde hanno preso Sinjar. La campagna di bombardamenti aerei condotta dagli alleati sta provocando molte vittime e le entrate assicurate dal mercato nero del greggio sono in forte calo. L’amministrazione locale è sempre più inefficiente in alcune aree e il flusso delle reclute in arrivo sembra rallentato.
Eppure sono rare le sconfitte sul campo di battaglia: anche se aumentano le voci di pressioni su Mosul dopo la riconquista di Ramadi, pochi credono che le forze di sicurezza irachene siano davvero pronte ad affrontare una missione così ardua, nonostante l’aiuto degli Stati Uniti. In Siria l’Is si è impossessato di un altro importante giacimento di petrolio e sta consolidando il controllo sulla provincia di Idlib. Le entrate continuano ad arrivare copiose grazie alle imposte. E se anche l’ascesa è stata fermata, la sconfitta dell’Is appare lontana.
Anche a livello internazionale la situazione è controversa. I rapporti dell’Is con i gruppi affiliati in Nigeria, Afghanistan e Bangladesh sono più allentati di quanto il gruppo voglia far credere. Ha fatto progressi nello Yemen, ma i militanti in Somalia sono incerti sull’unirsi ufficialmente. Laddove si crea un vuoto di potere, come in Libia, l’Is prospera. Laddove militanti e forze di sicurezza che li appoggiano non lasciano spazio ai nuovi arrivati, come in Algeria o Pakistan, l’Is resta privo di rappresentanza locale.
Infine c’è l’ideologia: non conta se in Europa, Asia centrale, Medio Oriente e altrove i giovani considerano l’Is solo “la gang più grande e più cattiva”, o un gruppo che ha un’autentica missione religiosa. L’attrazione per l’Is e la sua visione apocalittica del mondo ha un chiaro e forte ascendente su molti. L’audacia dei recenti attentati globali – l’abbattimento di un aereo di linea russo e la carneficina di Parigi – consolida la reputazione del gruppo, più che macchiarla.
Tuttavia, questo successo potrebbe contenere in sé il germe di problemi impliciti che capiremo nei mesi o anni a venire. Nel suo ultimo discorso, Al Baghdadi è parso più sulla difensiva e ha esortato iseguaci a rimanere leali a prescindere dalle difficoltà che dovranno affrontare. L’ideologia e la strategia dell’Is si reggono poi sull’espansione del gruppo: il suo motto resterà “resistere ed espandersi”, ma espandersi è di gran lunga più importante ed essenziale di qualsiasi altra cosa.
L’espansione infatti garantisce risorse nuove – case da depredare, siti religiosi da saccheggiare, pozzi di petrolio da sfruttare – e rafforza la dichiarazione esplicita dell’Is di attuare la concretizzazione di un progetto di rigenerazione storica del mondo musulmano ispirato direttamente da Dio tramite l’instaurazione di una nuova superpotenza islamica.
Nel caso in cui tuttavia il gruppo iniziasse a perdere terreno, le dinamiche che hanno alimentato la rapida e sbalorditiva ascesa dell’Is lavoreranno contro di esso. Già ora Al Baghdadi non appare più il vicario di Dio in Terra – uno dei significati del titolo di “Califfo” – e appare fallibile. Un Is sempre più stremato potrebbe non essere in grado di costringere (o convincere) gli intrallazzatori sunniti che hanno ascendente sulle comunità in Siria e Iraq a credere di essere l’unico che li può proteggere dall’egemonia sciita. Coloro che vivono nelle aree controllate dell’Is potrebbero smettere di pagare le imposte. I combattenti potrebbero demoralizzarsi. E il gruppo potrebbe non riuscire ad attirare gli ingenui, gli idealisti, gli avventurosi, gli indottrinati e i sadici da tutta Europa e altrove come avvenuto finora. Le sconfitte si moltiplicheranno. L’Is inizierà a frammentarsi, a scindersi in gruppi disseminati ovunque, che semineranno il caos per qualche tempo, senza quel potere di coesione assoluta che un gruppo unito può infondere e imporre. Forse occorreranno anni prima che questo scenario più ottimistico si concretizzi, e forse sono infondate e malriposte tutte le prospettive di vittoria imminente. Molto dipenderà dal contesto politico e geopolitico nella regione. E naturalmente, c’è la possibilità che i rapidi successi dell’Is contengano in nuce il seme di un suo rapido e definitivo fallimento.
Sconfiggere l’Is non sarà la fine agli estremismi jihadisti in Siria nè dell’attivismo islamico ultraconservatore. Di rado si parla di un gruppo particolare, quello di Al Nusra, affiliato di Al Qaeda che con buone ralazioni, un’oratoria moderata e una strategia di assistenza sociale, ha accuratamente camuffato il proprio operato e la propria missione adeguandoli agli obiettivi dell’organizzazione madre. Questo, abbinato alla reputazione di una grande efficienza nei combattimenti, ha consentito ad Jabhat Al Nusra di mettere radici nella resistenza nazionalista siriana nonostante le sue radici ideologiche e organizzative globali e jihadiste.
È stato proprio il successo di Jabhat Al Nusra ad aver indotto Al Baghdadi a prendere le distanze da Al Qaeda nel 2013. In seguito l’organizzazione ha sofferto un brutto colpo per mano dei suoi stessi compagni di battaglia armati di un tempo che l’hanno estromesso a forza da buona parte del territorio conquistato in Siria orientale. Se l’Is inizierà a disintegrarsi, Jabhat Al Nusra potrebbe essere il primo gruppo a trarne beneficio, riconquistando status, terreno, risorse ed effettivi. Jabhat Al Nusra può non essere coinvolto al momento in alcun attentato contro bersagli occidentali. Le fonti delle intelligence sono indecise sul livello attuale di pianificazione operativa e di effettiva capacità del gruppo di condurre attentati globali. Tutti, però, sanno che il vero erede del lascito di Osama Bin Laden è Jabhat Al Nusra, a prescindere da ciò che dichiara l’Is.
Ciò significa che la battaglia in corso contro il gruppo di Al Baghdadi – anche in caso di vittoria – potrebbe essere semplicemente una delle tante di una guerra molto più lunga in Siria e in Iraq.