Corriere della Sera, 28 dicembre 2015
Quel razzista di Emilio Cecchi
Andando faticosamente per archivi, oltre che per biblioteche, accostando alla ricerca letteraria l’indagine storica, non si finisce di fare scoperte anche in ambiti che sembrano ampiamente sondati. È la lezione che si trae dalla lettura del nuovo libro di Bruno Pischedda, L’idioma molesto (Aragno editore), che appare sulle prime come una biografia intellettuale di Emilio Cecchi, rivelandosi via via invece come il racconto del precoce consenso da parte del mondo umanistico italiano nei confronti delle tematiche razziali.
Pischedda ricostruisce i fili di quel pregiudizio antisemita e «antinegro» che ha origini lontane, precedenti la Prima guerra mondiale, e che poi troverà nelle leggi del 1938 il suo coronamento. Lo scrittore fiorentino, viaggiatore, anglista, principe dell’elzeviro e della prosa d’arte, «giocò una partita niente affatto minore nel novero dei conflitti etnici e religiosi che ebbero modo di ingigantire durante il primo quarantennio del secolo». Una biografia alquanto atipica, quella di Cecchi, piccolo-borghese autodidatta per necessità familiari, proiettato precocemente nel giornalismo e dunque ben presto, a Roma, in contatto con il mondo letterario che conta, il quale, dopo lunga gavetta di poligrafo, approda al «Corriere» nel 1927: sempre però avvertendo il contraccolpo di studi improvvisati e mai liberandosi di quella «fame di determinar si» avvertita sin dagli anni giovanili.
La precoce diffidenza per la tradizione ebraica traspare dalle letture della formazione (soprattutto francesi) e dai taccuini di lavoro, oltre che dagli interventi pubblici, per giungere ai reportage dei tardi anni Trenta dalla Libia, dagli Stati Uniti e dalle colonie portoghesi in Africa: corrispondenze che accompagnano consapevolmente la politica discriminatoria imposta dalle veline del Minculpop. E a ritroso, proprio dai servizi dell’inviato, puntualmente commissionati a Cecchi dal direttore del «Corriere» Aldo Borelli, prende avvio l’ottima indagine di Pischedda (minata qua e là da alcune ardite soluzioni espressive: «pimento effettistico», «buiore tellurico», «supremazia formulaica»...).
Nel capitolo iniziale, «Il viaggiatore differenzialista», saltano all’occhio gli omaggi all’ideologia colonialista, i discorsi segregazionisti su basi biologiche e spirituali, le intemperanze xenofobe, che si tratti di deprecare l’inclusione paritaria americana rispetto alla cultura ebraica, di fustigare l’eros e il «tenebroso anarchismo morale» dei neri d’America o di tessere una sorta di «paternalismo civilizzatore» verso le popolazioni africane. Ruvidi accenti che si tingono ove necessario di smarrimento esistenziale e di slanci tra il pietoso e l’estetizzante. Fuori discussione è l’abilità dello stilista, capace di mescolare magniloquenze accorate e precisione pseudoscientifica nel classificare i «tipi» razziali e le linee ereditarie, i tratti somatici e le ibridazioni di sangue. È chiaro poi che nel raccogliere in volume, a distanza di anni, quei vecchi resoconti Cecchi, senza rinnegarli, sarà attento a montarli con nuovi equilibri stilistici, astraendoli dai contesti originari.
Si tratta di convinzioni incubate lentamente. Pischedda intravede una koinè, un «idioma culturale, che insorge agli albori del Novecento, costeggia poi le antropologie colonialiste, e scansando remore o dubbi decisivi perviene alle soglie dell’ultima maturità». Bisogna guardare anche ai fondi privati, alle lettere e ai quaderni che Cecchi comincia a compilare appena ventisettenne attorno al 1911, quando già emerge l’ambigua sensibilità nei confronti del «carattere della mente ebraica» con tutti gli stereotipi correlati, di derivazione neoromantica e di ispirazione soprattutto francese. Nomi di riferimento sono, per esempio, quelli di Édouard Drumont e di Léon Daudet. Colpisce il capitolo che tocca i rapporti con il campione dell’irrazionalismo vociano Giovanni Boine, il quale, se trova in Cecchi un punto di riferimento sul piano critico-letterario, è però determinante nel suggerire all’amico letture-chiave in tema razziale, come si desume dal carteggio.
Non è necessario andare a cercare gli autori idiosincratici per svelare quanto sia razzialmente orientato il discorso critico di Cecchi: in tal senso vanno ricordate la fedeltà e la stima per un poeta come Saba, di cui però si evidenziano, in chiave limitativa, la «disperazione ebrea» e la «penosa fatalità di razza». Certo, quello di Cecchi è un razzismo polimorfo, ingegnoso a seconda delle opportunità, mentre in altri sodali rondisti si colora di tinte più ottusamente cupe: come nel caso Guido Da Verona, il bestsellerista sul quale sarà Bacchelli a far pesare le imputazioni razziali con parole di rara ferocia, cui Cecchi si limiterà a far da rincalzo dopo l’intervento più che perplesso di Borgese. Restando alla «Ronda», se è interessante il caso dell’ebreo Lorenzo Montano, pubblicista traduttore, editor mondadoriano di spicco, a sua volta non privo di pregiudizi antiebraici, è imbarazzante seguire il passaggio di molti militanti rondeschi, dopo la chiusura della rivista avvenuta nel 1923, verso le esperienze frondiste di Leo Longanesi e di Telesio Interlandi, che fu il più radicale fautore della politica razziale del fascismo: scorrono i nomi di Cardarelli, Barilli, Raimondi, Savarese, Baldini, De Robertis, Bacchelli e dello stesso Cecchi, che pure nel 1925 aveva «incautamente» firmato il Manifesto antifascista di Croce, salvo poi cercare di recuperare il terreno perduto grazie alla convergenza sempre più stretta con alcuni esponenti autorevoli del regime. L’«illustre e caro» Bottai in primis, destinatario di una dozzina di lettere tra il postulante e il confidente.
È qui che si colloca il rapporto delicato con monsignor Umberto Benigni, studioso e maestro ecclesiastico prima riformatore e poi sempre più reazionario, del quale Pischedda ricostruisce bene il crescente manifestarsi dell’ostilità etnica e la carriera di tramatore occulto, nonché il patrocinio esercitato su Cecchi dopo la guerra. Sotto Pio X, Benigni avvierà un «servizio di informazioni», con un’agenzia di stampa e un settimanale, pensato per screditare ogni espressione eterodossa. Si tratta di un organismo complesso e proteiforme, la cui missione censoria, estesa a livello internazionale, troverà esecuzione attorno al 1920 in un «Bollettino anti semita» e in altri fogli organicamente razzisti. È un piano segreto antimodernista e antigiudaico che prevede una rete di delatori militanti cui Cecchi, come altri rondisti, non fa mancare né il contributo scrittorio né il sostegno operativo in chiave di proselitismo: un doppio livello di militanza dimostrato dalle tracce inequivocabili contenute nei carteggi.
Quando ormai il razzismo è stabilito per legge, Cecchi ha affinato il suo repertorio retorico antisemita: non a caso il regime lo omaggia di tutti gli onori che si debbono all’intellettuale organico, pretendendo anche qualche onere non da poco. Tra il 7 e l’11 ottobre 1942, la richiesta di rappresentare l’Italia quale unico relatore al convegno dell’Associazione europea degli scrittori a Weimar, con Goebbels plaudente in prima fila e a due passi dal lager di Buchenwald. Pischedda segnala, sulla base della versione tedesca di cui si dispone, i contenuti e i toni del discorso cecchiano, che offriva della letteratura italiana contemporanea l’immagine di una produzione «sana, sodamente piantata nella vita nazionale», priva di evasioni e di liberi slanci. Nessun accenno, è ovvio, a Svevo, Saba, Moravia… Meriterebbe infine uno spazio a sé l’articolata ricostruzione dell’intervento censorio che Cecchi opera (per incarico del ministro Pavolini) sull’antologia Americana di Vittorini. Una lunga serie di pesi e contrappesi, di ipocriti rimpalli, di finte concessioni, che diventa spesso grottesco gioco delle parti, da cui, nel 1942, uscirà un’«insalata» critica e storiografica a cui il curatore, progressivamente estromesso, darà il suo assenso.
Il ritorno cecchiano sulla scena critica e pubblicistica nel dopoguerra sarà all’insegna della svagatezza umanistica: la sottaciuta revisione trasformistica cecchiana, priva di un autentico travaglio, si è realizzata in una generale accettazione silente (salvo eccezioni) da parte della società letteraria, anche quella antifascista.