Corriere della Sera, 28 dicembre 2015
C’è un piccolo regno della sharia nel cuore dell’Europa. Si chiama Bilal. Un bel reportage
La strada si fa stretta, sterrata, le case diradano. Velika Kladusa è alle spalle e non rimane che salire affidandosi al vecchio Murat che conosce bene questa triste montagna di confine: «La terra di Bilal è lassù, bisogna tenere gli occhi aperti».
Altri cinque chilometri di sassi e buche ed ecco spuntare su un prato scoperto lo scheletro di un edificio in costruzione. È il centro di preghiera salafita voluto dall’imam Husein Bosnic che tutti chiamano Bilal, il più grande reclutatore europeo di jihadisti. Così, almeno, lo considerano varie procure che hanno trovato tracce tangibili del suo passaggio in Svezia, Austria, Slovenia, oltre che a Roma, Cremona, Bergamo e Pordenone. Indagato anche in Italia dall’antiterrorismo di Venezia per aver promosso la Guerra santa e radicalizzato musulmani prima moderati come i «bellunesi» Ismar Mesinovic (poi morto in Siria) e Munifer Kalamaleski, Bosnic è stato arrestato e condannato il mese scorso a 7 anni dal tribunale di Sarajevo. Per «reclutamento di persone della comunità salafita, diventate parte dell’Isis allo scopo di compiere attentati terroristici», scrive nell’atto d’accusa il procuratore Dubravko Campara che gli ha dato la caccia per lungo tempo e che lo scorso 22 dicembre ha ottenuto l’arresto di 11 estremisti «che puntavano a uccidere oltre 100 persone a Sarajevo».
A Bosanska Bojna, in questa landa isolata di Nord Ovest, il predicatore ha comprato otto ettari di terra «usando denaro arrivato dal Qatar che gli ha versato 200 mila dollari», aggiunge sospettoso Campara. La scelta del luogo non è casuale. Si tratta infatti di un’area di confine molto particolare: di qua c’è la Bosnia, Stato extracomunitario e cuore musulmano d’Europa, di là la cattolica Croazia e l’Unione europea. Dal gennaio 2016 la repubblica croata sarà anche area Schengen e quindi le persone potranno circolare più liberamente verso gli altri Stati membri. L’Italia poi è a portata di orizzonte: 210 chilometri, Trieste.
Il confine di Bosanska
Proseguiamo sullo sterrato, oltre il «regno» di Bosnic. Fatte quattro curve ecco l’importante frontiera europea: una sbarra arrugginita con appeso un cartello di stop a interrompere la stradina e, dieci metri più in là, un gabbiotto bianco abbandonato dove un tempo forse c’era qualche poliziotto. Fine. Chi volesse evitare divise e dogane qui, fra i boschi di Bosanska Bojna, può farlo. Cittadini, predicatori, ma anche combattenti, terroristi e soprattutto trafficanti d’armi, visto che la Bosnia è un po’ la santabarbara d’Europa per via della guerra degli anni Novanta che ha riempito i Balcani di mitra e munizioni. «I proiettili di Charlie Hebdo sono stati fabbricati a Mostar, alcuni kalashnikov delle ultime stragi arrivano dalla ex Jugoslavia. Parigi ci sta chiedendo verifiche e noi collaboriamo», ricorda Igor Golijanin, giovane capo di gabinetto del ministero della Sicurezza che ha alzato il livello di allarme.
Dalla prospettiva di Bosanska le parole di Bosnic suonano ancor più sinistre: «Si comincia dai boschi, raduniamo i migliori eserciti e cadranno i migliori martiri»; «ciò che più rallegra Allah sono i suoi schiavi quando vanno fra gli infedeli e combattono finché non vengono uccisi»; «un giorno il Vaticano sarà musulmano». Vertigini.
Intorno al confine solo sterpaglia, faggi ingrigiti dall’inverno e un paio di casette in legno con i camini che fumano. Da una finestra si affaccia un signore alto e magro che sembra Clint Eastwood. È Zlatko Popovic, funzionario di polizia in pensione: «Non c’entro con la frontiera... Bilal? Eh, è chiaro che lui e i suoi seguaci non sono venuti qui casualmente. In questa terra non ti vede nessuno, non ci sono controlli e sei molto vicino agli Stati del Nord». Bosnic lo sa bene e lo sanno anche i suoi sponsor arabi che gli hanno messo in mano i dollari del deserto per realizzare un masjid (un centro di preghiera) fra le montagne europee più ruvide e nascoste.
I dollari del deserto
«Ci risulta che siano diversi i Paesi di quell’area che stanno investendo: Qatar, Emirati, sauditi... Qui abbiamo circa duemila fondamentalisti che, attenzione, non sono terroristi. Sono salafiti o wahhabiti», mostra Golijanin sulla cartina geografica del suo ufficio di Sarajevo, indicando le valli nordiche. Salafiti e wahhabiti significa islam sunnita, radicale, ultraconservatore, dove si osserva la sharia più rigida che talvolta non disdegna il jihad. Anche questa è un’eredità della guerra dei Balcani, quando in Bosnia arrivarono oltre duemila mujaheddin per combattere a fianco dei musulmani bosgnacchi, storicamente moderati, contro i cattolici croati, gli ustascia e gli ortodossi serbi. Lì esplosero le anime religiose dell’ex Jugoslavia che secondo l’intelligence hanno portato alla nascita di una decina di piccoli villaggi fondamentalisti dove di tanto in tanto sventolano le bandiere nere dello Stato islamico e le donne girano in niqab o in hijab e dove le regole sono dettate dal Corano. «In questi luoghi si arriva da una sola strada visibile dall’alto perché devono vedere chi sale», spiegano gli uomini del Sipa, la forza speciale di polizia.
I dieci villaggi
L’enclave salafita più controllata è Gornja Maoca, a Nord Est, altri piccoli centri si trovano fra i boschi più centrali di Teslic, Osve, Maglaj, Gluha Bovica, Mehurici, Zenica, teatro della sanguinosa guerra degli anni Novanta con i primi tagliagole dell’età contemporanea.
Noi siamo a Nord Ovest, nel cantone di Bihac, dove i wahhabiti hanno messo radici a piccoli gruppi fra Velika Kladusa e Bužim, tutti un po’ legati alla predicazione di Bosnic. Il quale dalla prigione di Sarajevo sta delegando molto. La riprova ce l’abbiamo proprio a Bosanska, dove arriva una vecchia Opel a tutta velocità. L’uomo frena, scende, si agita. Urla in bosniaco qualcosa di molto duro e minaccioso. Ed è pure buio. Non è una bella situazione. Chiede chi siamo, pretende le foto. Poi succede qualcosa di incomprensibile e di colpo si calma e dice pure il suo nome: Hakmed Mustafic. È l’amico fidato di Bosnic. A lui l’imam ha affidato le chiavi della proprietà: «E trentamila euro, che restituirò appena posso. Conosco Bilal da quando era piccolo, è una brava persona, la sua famiglia ha molti problemi adesso». Già: ha 43 anni, quattro mogli (solo una sposata ufficialmente per rispettare la legge bosniaca) e 17 figli da mantenere. «Diciotto, l’ultimo è nato dopo l’arresto». Bilal e Hakmed sono cresciuti fra le montagne di Bužim, nel villaggio di Šišici, una ventina di chilometri più a Est. Ci andiamo.
«L’imam era un pastore prepotente»
La casa di Bosnic è molto grande, su tre piani, meno di uno per moglie. C’è un altoparlante sul tetto, una scritta araba su un muro, lo stesso dove è stata tolta una bandiera nera con la scimitarra. «Lasciate stare mio papà», dice un tenero bambino. Procediamo e arriviamo al villaggio. Sei case, molto fango, un ruscello. Le donne, tutte col velo, entrano in casa. Esce l’uomo più anziano, il quarantatreenne Kasim Šišic, un ex ufficiale dell’esercito bosniaco che è anche il rappresentante di una dzemat, la comunità islamica del posto. Kasim fuma e sorprende: «Ve lo racconto io Bilal, lo conosco da sempre. Lui era un pastore come me, figlio di un uomo che era andato anche in Germania a lavorare, faceva le pulizie alla stazione di Stoccarda. Adesso lui sembra un imam, un teologo, e io un contadino stupido. Non mi piace, eravamo uguali. E tutta questa santità non la vedo, soprattutto quando portava le pecore a pascolare sulla mia terra. Da bambino poi era uno di quelli che non voleva perdere a pallone». Insomma, non lo ama. «Soffre di un complesso di superiorità».
A Šišici c’è chi è meno ostile di Kasim. È il falegname Rasim, che stenta a farsi vedere per ragioni ideologiche. Rasim ha la barba salafita e la sua famiglia osserva la sharia, come Bosnic. Niente alcol, niente televisione, moglie col velo, di sera sempre accompagnata, vietati il ballo e la musica strumentale e tutto ciò che è immagine. «Evitiamo ciò che può allontanare da Allah e corrompere l’anima», semplifica Rasim con un sorriso buono e uno sguardo estatico che evita di incrociare quello dell’interprete: donna, capelli sciolti. Tentazione.
Insomma, nel cuore dell’Europa, a ridosso del confine comunitario e a 200 chilometri dall’Italia c’è chi vive così. E poco più in là spuntano confini scoperti, reclutatori dell’Isis, bandiere nere e investimenti arabi.
L’avvocato: la democrazia ha fallito
Nel centro della Bosnia, a Travnik, fra i simpatizzanti salafiti c’è invece pure un avvocato, Adil Lozo. Non uno qualsiasi: è il legale di Bosnic. Lozo ha i baffi folti e il carattere spigoloso come la sua terra: «I sistemi democratici hanno dimostrato il loro fallimento, la legge perfetta è la sharia. Nessuno ruba, nessuno tradisce, nessuno uccide. Io a Medina ho visto oreficerie protette da una sola tenda. Bilal dice questo». E tutti i giovani che ha mandato a morire in Siria? «Non ha mai detto di andare a combattere, le scelte sono personali, e poi in Siria ci sono sei eserciti». Parigi? «Io non so se è stato l’Isis, non credo all’informazione». Contro di lui di schiera il Reisu-l-ulema di Sarajevo, Husein Kavazovic, massima autorità musulmana del Paese, che ci apre la porta del centro islamico più autorevole della Bosnia Erzegovina: «Condanno i fatti di Parigi, condanno certi atteggiamenti radicali e quel Bosnic non è un imam». Anche l’imam di Velika Kladusa, Coragic Zumret, prende le distanze: «A Bilal dico una sola cosa: caro fratello, a cosa ti è servito tutto questo? Allah ti giudicherà e tu pagherai per le volte che hai portato qualcuno sulla strada sbagliata, come insegna il Corano»
Il cielo di Velika è grigio, il freddo pungente. Dal minareto si leva il lungo salmodiare di un muezzin che sembra il lamento della terra.