Corriere della Sera, 28 dicembre 2015
Chi ha paura del meteo?
La meteorologia è il dominio per antonomasia dell’irrazionalità. Nulla come gli eventi atmosferici incoraggia la tendenza umana a estrapolare l’universale dal dettaglio che è propria della chiacchiera spicciola.
Un’alta pressione invernale come quella che stiamo vivendo, con temperature insolitamente miti e assenza di precipitazioni, è un pretesto efficace per fomentare le ansie apocalittiche e le conversazioni da bar, specie se arriva dopo un’estate torrida come la scorsa e giusto alla chiusura della conferenza parigina sul cambiamento climatico. Anche se guardiamo fuori dall’anticiclone, tutto quanto ci suggerisce che la situazione in cui siamo è davvero critica: i tifoni nel sud degli Stati Uniti, le alluvioni a nord dell’Inghilterra. Nell’esperienza limitata del singolo, le condizioni meteorologiche bizzarre o estreme divengono subito la prova tangibile, schiacciante di un fato che si sta compiendo.
In realtà, un inverno caldo e senza neve, anche se segue a un’estate bollente, non è di per sé significativo di una mutazione generale, a meno che non sia inserito in una tendenza precisa, lungo una scala di tempo che soltanto gli anziani dotati di ottima memoria possono permettersi, e forse nemmeno loro (comunque sia, sono gli unici ai quali prestare attenzione quando si parla poco scientificamente di clima). L’anomalia, anche se perdura per settimane come quella attuale, è plausibile in un sistema complesso come l’atmosfera. Può essere il sintomo di un fenomeno più ampio come no. Ammetterlo non significa negare la necessità drastica di ridurre il nostro impatto sull’ambiente un mese dopo avere insistito da ogni parte su questo punto, ma dovrebbe indurci a non confondere piani che non sono necessariamente allineati.
Eppure, anche a fronte di un ragionamento cauto, lo stesso tepore che in un inverno freddo avremmo invocato, che in molti sarebbero stati disposti a inseguire fino ai mari del Sud, non riusciamo a godercelo. Ci spaventa, anzi. In questi strani giorni di fine anno ci sentiamo minacciati dal «bel tempo», e inquieti, come il giovane ufficiale conradiano di La linea d’ombra, quando incappa con la sua nave in una bonaccia persistente a causa della maledizione del vecchio comandante. Il timore che la stasi meteorologica ci procura è certo specchio della nostra incapacità di rapportarci al caotico, all’imprevedibile, ma sembra esistere in essa anche qualcosa di ancestrale. È come se rivivessimo, mitigata, la pena dei nostri precursori quando la loro sussistenza dipendeva sul serio dall’esito di un raccolto, quando una siccità oppure una gelata improvvisa mettevano a repentaglio comunità intere. Salvo che, in confronto a loro, noi abbiamo perso ogni familiarità con le intemperanze della natura così come l’abitudine rituale di propiziarci il suo favore. Ci sono rimaste giusto le congetture pseudo-scientifiche da spendere nei bar.
Perciò ci concentriamo sui danni potenziali all’agricoltura e agli esercenti del mondo sciistico, sulla renitenza dei ghiri ad andarsene in letargo (a chi mai è interessato il destino dei ghiri?) e soprattutto, quest’anno, sui livelli allarmanti delle microparticelle nocive nell’aria dei centri urbani. Pm10, Pm2.5, ozono e benzene e biossido di azoto... nell’ultima settimana ci sembra quasi di distinguerle a occhio nudo, di vederle turbinare nell’aria tagliata dalla luce pallida di dicembre, polveri grigiastre, come una specie di effetto Tyndall malaticcio. E poi, con l’immaginazione pittorica che secoli di medicina ci hanno regalato, le seguiamo mentre si tuffano nella trachea e poi si incastrano nei bronchioli e negli alveoli. Benché sulle prime opponessi resistenza al terrorismo dei dati sullo smog, alla fine è piombato addosso anche a me, la mattina della vigilia: tutt’a un tratto vedevo la bruma tossica indugiare sulle strade della città, e la sentivo anche, nell’ingorgo dei turbinati nasali e nel bruciore degli occhi. È un pensiero strano, subdolo, quello che collega il male all’aria, perché l’aria è aria, non c’è modo di proteggersi, i ripari non servono a nulla. L’unica è scappare.
Tra i regali sui generis che ho ricevuto a Natale, c’è un umidificatore ultrasonico per ambienti. Da spento assomiglia allo scheletro di un riccio di mare, ma quando è in funzione s’illumina di tinte cangianti. In altre circostanze avrei considerato il dono offensivo, un riferimento poco delicato ai grugniti sommessi che emetto ritmicamente (non davvero imputabili a un problema specifico quanto semmai a un tic nervoso). Invece, date le circostanze, il diffusore è stato fra i regali più apprezzati dell’anno. L’ho messo in funzione la notte di Natale stessa. Pare che un livello adeguato di umidità faccia aumentare il diametro delle particelle inquinanti, le gonfi per così dire, impedendo loro di entrare troppo in profondità nei recessi polmonari. L’ho letto su Internet, non ero sicuro che fosse il caso di fidarsi, ma in assenza di alternative ho scelto di crederci. La fragranza di eucalipto si spandeva nell’aria contaminata della stanza, profumandola, e non c’erano dubbi che mi stesse salvando la vita. Adesso tengo il diffusore acceso anche di giorno, nell’attesa che un colpo di vento da Nord scavalchi finalmente le Alpi e ci faccia dimenticare tutto questo, il caldo e lo smog, nel tempo di un battito di ciglia. Allora, probabilmente, comincerà una nuova emergenza climatica. Magari sarà il freddo intenso a diventare «gelo», il gelo a trasformarsi in una «morsa», la morsa in un «killer» spietato. Ma noi ce ne preoccuperemo al momento opportuno.