il Giornale, 27 dicembre 2015
Tutti gli errori di James Bond. Le lettere dei fan
Una volta gli scrissero perché aveva sbagliato il profumo: Vent Vert non era di Dior, era di Balmain. Un’altra volta era una imperfezione culinaria: James Bond aveva accompagnato gli asparagi con la salsa bernese, anziché con la mousseline. E poi ancora, l’Orient Express, quello di Dalla Russia con amore, in realtà non era equipaggiato con freni idraulici, bensì a depressione. Ian Fleming aveva fatto della precisione il proprio credo: e i suoi lettori gli scrivevano decine e decine di lettere, per puntualizzare, sottolineare errori, suggerire cambiamenti, perfino possibili avventure per il loro eroe, l’agente 007. Allora James Bond era appena nato: il primo romanzo Casino Royale era uscito nel 1953; nove anni dopo arrivò il primo film, Dr. No (da noi Licenza di uccidere). Era stato tutto molto veloce, di più: travolgente, come il ritmo a cui Fleming, ex militare, giornalista, editore e scrittore viveva e soprattutto amava vivere. In dodici anni, fra il 1952 e il 1964 (quando morì, a 56 anni) scrisse 14 libri della saga di James Bond, tre libri-inchiesta e una storia per bambini; e nel frattempo era «Foreign Manager» per il Sunday Times, direttore della Queen Anne Press e proprietario di The Book Collector, una rivista per bibliofili, visto che collezionare prime edizioni era una delle sue passioni insieme al golf, le carte, i motori e la pesca con l’arpione nelle acque di fronte alla sua villa in Giamaica, l’adorata «Goldeneye».Scambiava moltissime lettere: «chiacchierava» con sconosciuti, amici famosi (Raymond Chandler, Noël Coward, Somerset Maugham) e con l’editore inglese, Jonathan Cape e il suo team editoriale (i «Capians»). Ora le lettere sono state pubblicate da Fergus Fleming, il nipote, in The Man with the Golden Typewriter. Ian Fleming’s James Bond’s Letters (Bloomsbury, pagg. 392, sterline 14,99) perché, per festeggiare la conclusione del primo romanzo, Fleming si regalò una macchina per scrivere placcata oro (che si fece comprare da un amico a New York per non pagare le tasse). C’è chi lo accusa di decadimento morale, per via dei cedimenti di 007 al sesso e al lusso: al che Fleming, paziente, spiega di averlo creato come «uno strumento smussato e anonimo nelle mani di un Dipartimento governativo», con un nome il più neutrale possibile e poi, per dargli «un’illusione di profondità», l’aveva dotato di accessori teatrali, come pistola e sigarette.
Però, anche lì, il terreno era sdrucciolevole. Nel ’56 scrisse un certo Geoffrey Boothroyd, esperto di armi, per deprecare «il pessimo gusto» di 007 in fatto di pistole: la Beretta di cui faceva sfoggio era «una pistola da donna», non certo adatta alle sue missioni. Altro che licenza di uccidere. Così, due anni dopo, in Dr. No Bond avrà una S&W.38 special (anche se con la fondina sbagliata, terrà a ri-precisare Boothroyd). E poi c’era, per esempio, la faccenda dell’orologio. Un fan consiglia a 007 un Rolex Oyster Perpetual, mentre una lettrice di origine svizzera gli dà tre suggerimenti preziosi: primo, Patek Philippe era scritto sbagliato (Parek); secondo, l’orologio più prezioso del mondo, al momento, era un Audemars Piguet, un’informazione che Fleming sfrutterà, come il terzo consiglio, cioè di ambientare una avventura di 007 fra le montagne della Svizzera. In fatto di auto, invece, è un medico a proporgli di rottamare la Bentley vintage di Bond per una Aston Martin. E poi i nomi: un giorno scrissero la vera signorina Moneypenny, il vero Goldfinger (un polemico architetto legato al Partito comunista britannico) e la moglie del signor James Bond, ornitologo, autore di Birds of the West Indies, «una delle mie Bibbie» spiegò Fleming, che fu colpito da quel nome «breve, non romantico e però molto maschile».
Fleming era un maniaco del dettaglio, anche nei suoi contratti editoriali e in ogni aspetto della creazione dei suoi libri. Il suo editore, Jonathan Cape, non aveva fiducia in lui: credeva che le spy story fossero destinate a vita breve, e lesse solo il primo romanzo della saga. All’uscita di Casino Royale, Fleming e il direttore editoriale scommisero per chi dovesse pagare otto copie promozionali extra. Ma niente poteva fermarlo, neanche chi lo accusava di essere «troppo scenografico» o di perdersi in «troppe informazioni inutili»; neppure quando un certo Ross Napier gli rivelò che al numero 13 di Sretrenka Ulitska, la «sede» dei nemici della Smersh, c’era un edificio banalissimo, che non poteva essere il quartier generale di alcunché. L’unico a cui Fleming cedesse, alla fine, era il suo eroe: anche se diceva che nessuno «con un briciolo di intelligenza» può «prendere sul serio un personaggio come James Bond»; anche se raccontava di avere iniziato a scrivere thriller solo «per distrarsi dalla terribile prospettiva» del matrimonio; anche se sosteneva di preferire i suoi villain, i cattivoni come Goldfinger, il Dr. No, Blofeld; anche se aveva tentato di farlo morire col veleno nella scarpa di Rosa Klebb, alla fine di Dalla Russia con amore, ricevendo una valanga di proteste dai lettori, che lo avevano «costretto» a continuare. Perché quello che amava davvero era «scrivere» James Bond, come spiega l’amico Ernesto Cuneo, che lo scortò in un lungo viaggio attraverso l’America e vide l’«artigiano Fleming» all’opera: osservava dalla mattina alla sera, prendendo nota di tutto, facendo domande su qualunque particolare, dagli ingredienti della salsa barbecue al tipo di legno dei ceppi fino alla temperatura del fuoco per cuocerla e poi, ogni giorno, da quegli appunti trascriveva a macchina 800 parole. E alla fine dell’anno aveva raccolto centinaia di blocchetti di appunti e allora andava in Giamaica e, in due mesi, li trasformava in un bestseller. Qualunque cosa, pur di non rifiutare un’avventura, sua o del suo personaggio. Perché l’unico vero peccato capitale, per Ian Fleming, era l’ottavo: la noia.