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 2015  dicembre 27 Domenica calendario

Amodei, il vecchio frate che dipinge le donne nude

Devi conoscere Tito Amodei, mi dice Elena Malagodi. Starebbe benissimo nella galleria dei tuoi grandi vecchi. Chi è? domando. È un grande artista. Un grande artista? Cosa vuol dire un grande artista, tutti gli artisti si sentono grandi e spesso incompresi. Tito non è un incompreso. È stato amico di Sebastian Matta. Credo anche il suo confessore. In che senso confessore? Be’, Tito è un frate. Appartiene alla congregazione dei passionisti. Ma è insolito per essere un religioso. Ha conosciuto Andy Warhol e Mark Rothko. È un artista senza l’ossessione dell’arte sacra. Ma con il senso del sacro. Ci penso su. E decido di andare a trovarlo. Vive a Roma nel convento, accanto alla Scala Santa, nella grande piazza di San Giovanni in Laterano. Lo studio dove continua a lavorare, nonostante i quasi 90 anni e un Parkinson che gli ha colpito una mano, somiglia a un antro mitologico. Atmosfera lievemente pagana. In bella vista un magnifico tronco di un albero che Amodei ha lavorato fino a sbozzarne la forma di una donna nuda. Mi colpisce la libertà di espressione e la disinibita capacità di interpretare l’arte senza censure né conformismi. «Di cosa dovrei vergognarmi? Dio mi ha dato un talento. Magari non sarà quello che i critici si aspettano o che i parroci vorrebbero. Ma è qualcosa che nasce dentro e va dove vuole».
Davvero l’arte è così indipendente?
«Se non lo fosse non sarebbe arte. A ciascuno di noi spetta poi il modo in cui realizzarla. Mi trovo a vivere due vite in una. Sono un artista e sono consacrato in una congregazione missionaria».
Ed è difficile tenere insieme religione e arte.
«Infatti non faccio arte religiosa. Provo un certo imbarazzo quando qualcuno mi dice: da te mi sarei aspettato che dipingessi i santi, Gesù sulla Croce o qualche scena edificante della Bibbia. Lodevole, dico io, ma l’arte è un’altra cosa. L’arte non è religiosa né laica. È solo arte. Vivaddio».
Dove ha studiato?
«Ho fatto l’Accademia a Firenze con Primo Conti. Studiare pittura è importante ma non dà la misura di chi sei. Ti insegna delle tecniche. Ma se dentro hai solo vaghe aspirazioni, quelle tecniche saranno applicate in modo mediocre».
Lei cosa aveva dentro, diciamo, di diverso?
«Ero nato con questa tensione. Non capivo bene cosa dovessi fare e come farlo. Ma c’era in me qualcosa che mi spingeva a guardare la natura e le sue immagini in modo diverso dagli altri».
Le sue origini?
«Sono nato in provincia di Isernia. I miei erano povera gente. Con una piccola masseria e un po’ di terra da cui ricavare lo stretto necessario. Non c’erano molti discorsi, né libri. A parte la Bibbia, in casa circolava un romanzo che mio padre ci leggeva la sera: Dagli appennini alle Ande. Papà aveva fatto la terza elementare ma col tempo aveva imparato a leggere. Era orgoglioso quando prendeva tra le sue grandi mani il piccolo libro e con voce incerta iniziava il racconto. A volte si stancava. Dopo una giornata passata nei campi non era facile intrattenere i figli. Ma lo sentiva come un dovere».
Questa fu la sua infanzia?
«Abbastanza spensierata. Passavo il tempo a giocare e a litigare con mio fratello. Frequentavo senza voglia la scuola. Salvo quando c’era l’ora di disegno. In quel momento sentivo di essere il migliore. Gli altri bambini ricalcavano un’immagine e la maestra valutava gli esiti. Una volta vidi su un libro il ritratto del Duce e lo riprodussi a mano libera. La maestra restò sorpresa. Intuì che c’era del talento».
Cos’era il fascismo per un bambino di una provincia lontana?
«Non ne avevo piena consapevolezza, ma posso dire che furono anni grotteschi. A volte venivamo adunati sulla piazza del comune, e lì da un altoparlante ascoltavamo i discorsi del Duce. Era il 1940, avevo 14 anni, e sentii la dichiarazione di guerra. Mio padre pensò bene di mandarmi in collegio».
Fu un modo per proteggerla.
«Fu anche questo, certamente. Ma la ragione principale è che non ero adatto alla vita dei campi. Ero piccolo e gracile. I miei pensarono di affidarmi a un istituto religioso. L’anno prima, nel 1939, arrivarono a Isernia dei missionari passionisti. Mio padre mi portò dal loro superiore. Che mi visitò come fosse un medico. Ogni tanto scuoteva la testa. Alla fine disse: non possiamo assumerci la responsabilità di prenderlo. Fatelo mangiare bene, curatelo. Ne riparleremo».
Lei come reagì?
«Non sapevo se sentirmi felice o preoccupato. Strattonandomi verso casa mio padre disse: neppure il Padreterno ti vuole. E invece l’anno dopo fui accolto nel collegio di Nettuno. Ricordo che quando gli alleati sbarcarono ad Anzio si creò il putiferio. Ci giunsero gli echi di una battaglia terribile. Dei morti disseminati sulla costa. Delle bombe sempre più vicine. Alla fine i padri missionari presero la decisione di trasferirci nel convento del Monte Argentario. Lì sono rimasto per anni, facendo prima il ginnasio poi il liceo e infine gli studi di teologia. Fui ordinato sacerdote nel 1953».
Era la vocazione a spingerla al sacerdozio?
«Fu la strada che avevo percorso a portarmi a quella scelta. Direi però che la vocazione – ossia quel senso di appartenere a qualcun altro – giunse successivamente. Ci fu anche una crisi giovanile di rigetto».
Provocata da cosa?
«Vedevo gli altri ragazzi dischiudersi al mondo. Frequentare le ragazze, divertirsi. Mi amareggiava sapere che la mia vita sarebbe stata diversa. Piansi e fui tentato di abbandonare tutto. Poi, una mattina in cui la decisione sembrava presa, mi affacciai dalla terrazza del convento. Davanti c’era la vastità del mare, la bellezza del monte, il rigoglio della natura. Nella solitudine di quel momento, mi sentii in pace. E ogni tensione si sciolse. Ogni dramma sparì».
E l’arte?
«Avevo continuato a disegnare, ma senza un vero progetto. La cosa importante, in quegli anni, furono gli studi di teologia. E quando mi ritennero pronto venni mandato in un convento di Firenze. Fu qui che incontrai Primo Conti. Era stato futurista, amico di Balla e poi professore all’Accademia. A un certo punto ebbe una crisi religiosa che lo portò a dipingere soggetti anche sacri. Ammiravo le sue prime realizzazioni, i disegni soprattutto, mentre mi lasciavano indifferente i quadri a sfondo religioso. Ad ogni modo fu grazie a lui che conobbi Ottone Rosai. E Giuseppe Viviani. Per me il più grande incisore italiano, insieme a Morandi, del quale fu allievo. In accademia mi insegnò i segreti di quell’arte».
Com’era l’ambiente fiorentino?
«Si percepiva come l’ombelico del mondo. Il grande innamoramento per le avanguardie aveva lasciato il posto a una specie di populismo che qualcuno chiamò ritorno all’ordine e altri nuovo realismo. Non è che ne fossi così entusiasta. Mi sentivo ai margini di quell’universo e non potevo fare a meno di pensare alla grandezza dell’arte tra la fine dell’Otto e i primi del Novecento».
A chi pensa?
«Be’, al più grande di tutti, forse, e non vorrei peccare di presunzione: Paul Cézanne. Non ho mai visto nessun artista, come lui, capace di collegare la superficie delle cose alla loro profondità. Merleau-Ponty scrisse in maniera molto originale di questo pittore. Ricordo l’emozione che mi procurò la visita nel suo studio di Aix-en-Provence. Era sulla collina di Lauves. L’atelier di un artista è altrettanto importante che i suoi quadri. Rivela il suo mondo segreto».
Sentendola parlare qui, dal suo studio, mi chiedo quale sia il suo mondo segreto.
«È un mondo indicibile dove Dio entra dalla porta secondaria e assiste silenzioso al farsi delle opere».
Tra queste opere c’è anche una scultura in legno che è un nudo di donna.
«Lo realizzai con un tronco che trovai sulla spiaggia di Porto Ercole. Finita l’opera pensai di mandarla alla Quadriennale. Il Presidente mi telefonò. Padre, disse, non possiamo accettarla. Immagini cosa direbbe la gente: ma quel nudo lo ha davvero fatto un frate? E pensi allo scandalo. Ero allibito. Farfugliai che in tutti gli anni trascorsi all’accademia avevo fatto innumerevoli prove con i nudi femminili e mai nessuno si era sognato di farmi obiezioni del genere. Lo scrittore Giorgio Saviane venne a sapere della vicenda e scrisse il romanzo La donna di legno».
Che cos’è l’arte per un frate?
«Posso dirle cos’è per me. È il bisogno di possedere la materia attraverso le forme. Sono tormentato a volte dalla presenza delle cose e so che devo tradurre il tormento in una forma che lo plachi. Mi dolgo per il modo in cui il clero è stato assente in tutti questi anni sui problemi dell’arte. Il Concilio Vaticano II aveva tentato un’apertura. Ma non ebbe nessun seguito. Abbiamo dimenticato il ruolo fondamentale della Chiesa anche rispetto all’Arte».
È sorprendente questa sua libertà. So che ha scritto un saggio sul kitsch e il fenomeno religioso.
«Non ci trovo niente di eretico. Esisteva la grande Madre di Dio, ora abbiamo la Madonnina».
I tempi sono mutati.
«Un allievo di Bernhard Berenson gli riferì con entusiasmo di un’apparizione della Madonna. Berenson lo fulminò chiedendogli: in quale stile? La Madonna appare kitsch a Lourdes, a Fatima, a Medjugorje. Ho la sensazione che si adegui».
Si adegua a cosa?
«Al pessimo gusto che si è diffuso nella Chiesa, prima nel clero e poi tra i fedeli. Mi piace immaginare che Maria si umilia a portare i suoi messaggi con questa immagine di sé convenzionale e soporifera, consolatoria e inconsistente».
Si è fatta carico del cattivo gusto.
«Si adegua appunto ai sentimenti dei cristiani che la vogliono levigata, senza corpo, dolce e lacrimosa. Senza spigoli, senza sesso e disincarnata. Come si è finiti in questo svuotamento dei contenuti e della forma?»
Si è dato una risposta?
«L’iconografia che, attraverso i secoli, ha riguardato Maria, era un’emanazione della riflessione teologica sul suo mistero. Si è passati da questa immagine altissima – che ritroviamo in Giotto, Masaccio o Piero – alle pratiche devozionali odierne che disseminano immaginette prodotte in serie».
È la fede, bellezza, per parafrasare una celebre battuta cinematografica.
«La fede? Provo una desolante depressione alla vista di certi santuari che pullulano di immaginette e oggettini melensi che intasano gli occhi e coinvolgono il cuore. Mi sorprende come la Chiesa, che ha sempre condannato deviazioni dottrinali, non avverta il danno reale che, nell’era delle immagini, le immagini che essa tollera o promuove arrecano all’ortodossia del suo Credo».
Ce l’ha con l’arte sacra?
«L’arte non ha bisogno di aggettivi che la qualifichino. Si immagina un pittore o un poeta che vengano da lei e dicano: sono un artista religioso. Scoppierebbe a ridere. Ma questo vale anche per quegli artisti che si definivano impegnati nel sociale. Pensi a Guttuso».
Lo ha conosciuto?
«Lo vidi una sola volta. A una mostra di Sutherland. Un artista che ho molto amato. Guttuso un po’ meno. Ha fatto delle cose egregie. Ma insomma tutta la retorica comunista se la poteva risparmiare. Sa cosa penso? Un’opera se è bella non ha bisogno di parole. È bella. E sta in piedi da sola».
L’arte si è molto complicata. Lei, vedo, predilige, l’informale.
«E allora? La grande tradizione europea e americana – dai Kandinskij e Klee fino a Warhol e Rothko – è la prosecuzione della grande pittura fiorentina del due o trecento o di quella fiamminga. La grande arte è fuori dal tempo come mi spiegò una volta Sebastian Matta».
Vi conosceste bene?
«Fummo amici. Andai la prima volta a trovarlo a Tarquinia dove viveva. Il segretario mi disse: il maestro la riceverà per un solo quarto d’ora. Parlammo per tutta la notte».
Di cosa?
«Di arte, di vita, dei problemi religiosi che lo angosciavano. La gente, e gli artisti non fanno eccezione, ha sempre un senso di colpa e la voglia di mortificarsi. Freud l’ha spiegato benissimo».
Lo legge?
«L’ho letto molto in passato. I suoi tentativi di scandagliare l’animo umano sostituirono, in parte, le pratiche confessionali. Non giurerei che i risultati siano stati sempre all’altezza della sua intelligenza. Ma certo è stata una delle grandi novità del Novecento. Il pudore ci invita a coprirci, la psicoanalisi ci mette a nudo. Cos’è meglio? Ecco un problema al quale francamente non saprei rispondere».