la Repubblica, 27 dicembre 2015
A Londra i ritratti di Goya
LONDRA. “Solo Goya”: due parole scavate nella sabbia dove incede, regale, la duchessa d’Alba nel nero scintillante della veste. Mantiglia e velo da maja, la bella dama indica con gesto imperioso la scritta enigmatica che si legge ai suoi piedi: “Solo Goya”. Una firma esibita e sfrontata? Una complicità fra la musa e l’artista? Comunque un ritratto temperamentale e sublime. E uno scatto d’orgoglio del grande pittore.
Per la prima volta proposto in questa prospettiva parziale – settanta ritratti e nient’altro – Goya trionfa nelle sale della National Gallery di Londra ( Goya: The Portraits, fino al 10 gennaio), in un anno che vede il ritratto protagonista a Londra e a Parigi nelle mostre parallele di grandi specialisti del genere, da Jean-Etienne Liotard (Royal Academy) a Elisabeth Vigée Le Brun (Grand Palais di Parigi).
Ma i ritratti, che sono solo un côté del suo genio versatile, diventano in Goya il reagente privilegiato e sensibile al mondo di cortigiani, regine, ministri, poveracci ed amici che abitano la fine di un’epoca.
Nella crisi disorientante e spietata che squassa l’estremo Settecento, la solitaria grandezza di Goya sta nella ricerca di un varco libertario per l’arte, un varco che non coincide con l’algida purezza neoclassica. Goya rivendica il diritto a esprimere una realtà individuale ed ambigua, un “sentire” tormentato e romantico, e forgia un linguaggio che corrode la forma, violando le convenzioni ed il canone.
Seguendo il percorso della mostra, la percezione è immediata: più duttili dei quadri sacri e delle scene galanti che portano il timbro della sua giovinezza, i ritratti di Goya restituiscono uno spaccato folgorante della Spagna, la sua storia antropologica e sociale, un repertorio di umanità.
È già un artista affermato (ha trentasette anni, ha compiuto il viaggio in Italia, ha orizzonti culturali molto vasti: Velázquez, Rembrandt, i grandi veneziani), quando nel 1783 dipinge il suo primo ritratto, quel Conte di Floridablanca di pirotecnica maestria (l’azzurro smaltato della fusciacca incrocia ed accende la serica veste scarlatta), ma ancora rigido e in posa, prigioniero di troppi cliché.
Passano pochi mesi e Goya realizza un capolavoro, un ritratto di gruppo fra i più belli del mondo, miracolosamente conservato in Italia. Vorrei saperla raccontare questa presenza eccentrica di Goya in Val Padana, fra le nebbie di Mamiano di Traversetolo, nella Fondazione Magnani Rocca. Una tela, tre metri di base, che apre spettacolarmente la mostra di Londra, avendo catturato per sempre la malinconia dell’Infante don Luís di Borbone e della sua piccola corte.
Fratello cadetto del re Carlo III, don Luís viveva relegato nella Sierra de Gredos, lontano da Madrid, per avere sposato la bellissima Maria Teresa Vallabriga, borghese, di 31 anni più giovane.
In questa “scena di conversazione” dove nessuno conversa, quattordici figure si scalano silenziose in ribalta. Goya le osserva dalla sua postazione nel buio, nell’angolo sinistro del quadro: i bimbi, le ancelle, l’Infante senza più desideri, la bella signora vestita di luce, il coiffeur che le scioglie i capelli (è ormai scesa la notte), un uomo elegante che è il musicista Luigi Boccherini, un servo che passa nell’andirivieni della vita.
La composizione è imponente e complessa, eppure fluida, immediata, di sconcertante libertà nell’accostare prìncipi e borghesi, servitori e bambini sorpresi nell’intimità di una sera. Niente di aulico, di celebrativo, spazzati via i precedenti ingombranti dei ritratti ufficiali del regno. Si avverte, turbati, che «la solitudine dell’uomo nel ritratto può essere più grande della solitudine dell’uomo sulla terra». Parole del premio Nobel Ivo Andric, toccato dai ritratti di Goya. Parole che fanno riflettere sulla vistosa operazione di marketing lanciata da Credit Suisse (partner dell’esposizione) che, dai cartelli all’ingresso della National Gallery, invita a una lettura azzardata: «you can bring Goya’s portraits to life, using your smartphone».
La “vita” dei ritratti di Goya sta invece, io credo, nella tangibile e non virtuale grandezza del Ritratto del duca di Wellington, “generalissimo” e vittorioso, eppure così solo e smarrito davanti alla Storia. O in un secondo Ritratto della duchessa d’Alba, irresistibile e lattea, ornata di nastri rubino. O ancora nel Ritratto del piccolo Manuel Osorio, una colata di rosso sui non-colori del fondo. Compunto e sottratto ai suoi giochi, il bimbo si muove entro una scenografia che ha scompigliato le carte (ai suoi piedi: tre gatti, una gazza, una gabbia di cardellini) e portato nuova linfa alla tipologia del ritratto.
Difficile approdare a una sintesi. Questo reportage mette insieme frammenti, perché i dipinti ci prendono uno per uno, fino agli autoritratti dolenti dell’ultimo Goya. Fino al doppio ritratto (1820) che chiude la mostra: il pittore, fra la vita e la morte, è sorretto dal suo medico Arrieta. Nella gamma senza fine dei grigi (i grigi e i rosa di Goya!), si legge lo schema della Pietà, il corpo del pittore malato, franante sul primo piano.
Da anni, chiuso in una prigione di silenzio dovuta alla sordità e prostrato dalla perdita di sei figli, Goya aveva espresso la sua amarezza esistenziale nelle “pitture nere” della Quinta del sordo, la sua casa sul Manzanarre. Per ritrovare infine in terra di Francia, nell’esilio volontario a Bordeaux (1824), quel filo di vita che la Spagna al tramonto, la Spagna di Ferdinando VII, sembrava crudelmente negargli.