la Repubblica, 27 dicembre 2015
Kamasi Washington, ovvero come tenere insieme Coltrane e Stravinskij
ROMA.
Il luogo dell’appuntamento è un locale di qualità lontano dal centro, si chiama Monk. Poco lontano un campo nomadi: a quest’ora della sera le famiglie Rom rientrano trascinando i carrelli dei supermercati pieni di oggetti recuperati dai cassonetti dell’immondizia. Un grande tourbus nero è parcheggiato fuori. Dalla scaletta scende un uomo gigantesco e ieratico, la pettinatura afro racchiusa in un cappello in stile rasta. Kamasi Washington, trentaquattro anni, astro nascente della scena jazz made in Usa, indossa una tunica ampia e colorata con un grosso medaglione: «Mi è sempre piaciuto vestire così. C’è un sarto nel mio quartiere, a Los Angeles, che fa questo tipo di vestiti ed è da lui che scelgo le stoffe». Ma non è solo questo, si tratta anche di una scelta politica: «Sono orgoglioso di essere nero e della mia storia. E la mia storia non inizia da schiavo negli Stati Uniti. Inizia in Africa e così ci si veste lì. Il medaglione invece è un astrolabio: l’hanno inventato in Egitto».
La voce è inaspettatamente esile, preludio a una dolcezza che si esplicherà nella conversazione in cui mostrerà un’intelligenza acuta ma quasi sottotraccia. Grande carisma. Mentre entriamo nel locale attiguo a quello in cui Washington terrà il suo concerto, racconta della sua mattinata trascorsa a visitare Roma («Il Colosseo: bellissimo!»). Nato a Inglewood, uno dei quartieri “difficili” di Los Angeles, dove le gang si spartiscono il territorio («immagino ne abbiate anche qui a Roma di quartieri così») ha iniziato a suonare da bambino. «Non mi ricordo un momento della mia vita in cui non abbia suonato. Per me è sempre stata una parte di quello che facevo, proprio come lavarmi i denti o mettere in ordine la stanza. Mio padre è un musicista: mi ha messo in mano il primo strumento, un tamburo, quando avevo tre anni, poi il piano a sei, il clarinetto a otto e il sassofono a quattordici». Dietro il miracolo di The Epic, forse il più monumentale esordio di tutti i tempi, tre cd, centosettantatre minuti di musica, decine di migliaia di copie vendute come raramente si vede per un disco di jazz, non ci sono genio e sregolatezza e nemmeno marketing ma una solidissima preparazione musicale unita a una precisa consapevolezza delle proprie radici, musicali e non solo. «Quando mi sono laureato in etnomusicologia mi sono reso conto di quanto la musica africana abbia influenzato tutta la musica americana, compresa quella più contemporanea come l’hip hop o persino l’elettronica. Quello che la musica ha di straordinario è di poter comunicare a tutte le latitudini a prescindere dal linguaggio. Tutti citano Coltrane come una delle mie influenze ed è indubbiamente vero, ma sicuramente lo è stato anche Stravinsky. Non ho bisogno di saper parlare russo per capirlo: è entrato nella mia testa e mi parla come fosse il mio miglior amico». Dentro la musica di Kamasi c’è anche il rock. «Jimi Hendrix prima di tutto, Radiohead, Beatles, Nirvana, Rage Against The Machine». Scelte che travalicano i generi con la qualità come unica caratteristica comune. The Epic compare in tutte le classifiche dei migliori album dell’anno, dal Guardian a Pitchfork, un fatto che non accadeva da tempi immemorabili a un album jazz, solitamente rinchiusi nella loro categoria ristretta. Ma l’influenza di Kamasi Washington si estende oltre. Il suo sax e i suoi arrangiamenti per archi danno spessore all’album numero uno di tutte le classifiche del 2015: To Pimp A Butterfly di Kendrick Lamar, un disco che abbatte i confini tra hip hop e jazz, considerato fin da ora una pietra miliare per le sue profonde stratificazioni musicali ma anche politiche, come non si vedevano dai tempi dei Public Enemy, mescolate al linguaggio da strada. Che a volte può diventare anche violento, come un certo “gangsta rap”. «I Public Enemy sono stati illuminati: e quella è stata la loro esperienza. Ma anche gente del gangsta rap che non è stata illuminata come Eazy E ha il diritto di esprimere se stessa. Non la condivido ma la capisco perché ho avuto esperienze simili e non me la sento di giudicarlo».
Kamasi era il terzo di sette tra fratelli e sorelle. Il padre insegnante di musica lo ha aiutato molto anche a stare fuori dai guai. Ora è con lui che suona in concerto. «Insegnava sax alla scuola superiore. Alcuni dei membri della band con cui suono oggi sono miei amici da sempre e sono stati suoi allievi. A Inglewood c’erano molte pressioni addosso a noi ragazzi, la mentalità più diffusa era quella di prendere scorciatoie che portavano alla droga o alla violenza. Ma quando esci fuori da quella mentalità negativa vedi anche tutto il resto. Voglio dire che a Inglewood c’era anche molta musica, molta cultura, molta gioia, molta vita». La voce è sempre gentile, estremamente calma ma l’espressione è seria. «Come afroamericano posso dire che quando nel mio quartiere vedevi i poliziotti che in teoria erano lì per proteggerti, invece di sentirti sicuro ne avevi paura. Io ne ho ancora paura. Sono il target giusto: un grosso uomo afroamericano. Quando questa percezione cambierà vorrà dire che si è finalmente raggiunto un livello superiore di equità sociale». L’America è ancora razzista nonostante un presidente nero? «Non ha mai smesso di esserlo purtroppo. Anche dopo l’emancipazione dalla schiavitù si sono metodicamente ripetuti episodi di violenza contro i neri: quasi mai gli aggressori vengono puniti. La differenza è che oggi grazie ai telefonini e ai social network queste cose non possono più essere nascoste. Quanto a Obama, un presidente non è un re: c’è un limite alle cose che può fare. Anche se lui spinge verso l’uguaglianza è solo una parte del sistema. Per me ha fatto davvero un ottimo lavoro. Non è perfetto, nessuno lo è ma lui ha fatto buone cose come l’assistenza sanitaria per tutti. Il suo non è un lavoro facile».
Quella di Kamasi Washington e Kendrick Lamar è di fatto l’inizio di una piccola rivoluzione che celebra il ritorno di un pubblico giovane ai suoni di Pharaoh Sanders, Sun Ra, McCoy Tyner e naturalmente John Coltrane. Non a caso il terzo polo di questo cambiamento, proprietario dell’etichetta Brainfeeder che ha pubblicato con coraggio quello che tutti avrebbero considerato un suicidio commerciale – un triplo cd jazz di un esordiente – di Coltrane è il nipote. Si chiama Steven Ellison ma è meglio conosciuto come Flying Lotus, ed è musicista a sua volta. La sua Brainfeeder è un’etichetta di musica elettronica considerata molto cool e che non ha paura delle contaminazioni. «Dire che cosa è il jazz oggi non è possibile» riflette Kamasi, «ci sono così tanti elementi: ritmi differenti, accordi, approcci, stili... No, il jazz è una cosa troppo grossa, non si può definire». I puristi, invece, sembrano saperlo definire assai bene, ne delimitano i confini da sempre, detestando che si contamini con altre forme musicali. Per alcuni di loro Kamasi è un traditore: non farebbe realmente jazz perché la sua attitudine (non possono dirlo della musica) è più hip hop, e l’etichetta per cui incide ha troppo a che fare con l’elettronica. Quanto ai suoi amici, Flying Lotus e Kendrick Lamar vengono da altri mondi. «Non mi importa quello che dicono. Una parola è solo una parola: non può definire un mondo. Vuoi chiamarlo jazz?
Cool.
Vuoi dargli un altro nome?
Ok.
Sono definizioni che per me non hanno rilevanza, non hanno potere. La musica è altro: è qualcosa che sento dentro la mia testa e dentro il mio cuore, qualcosa che è dentro di me. Tu esprimi te stesso attraverso quello che suoni e crei un dialogo con gli altri che stanno suonando con te. Per me il jazz è libertà. La libertà più pura e assoluta che abbia mai provato nella mia vita».