la Repubblica, 27 dicembre 2015
Richard Gere, il buddista che non fa caso al suo corpo sensuale. Intervista
ROMA. Guarda fuori dalla porta finestra dell’albergo e sospira un «sarebbe bello chiacchierare in giardino». È un concentrato di grazia Richard Gere, dal momento in cui accoglie l’ospite nella suite di un albergo del centro, prima mattina, a quello in cui si congeda con un lungo abbraccio affettuoso. Rende speciale perfino il complimento di prammatica all’Italia: «È un paese che sento affine. Mi piace il vostro caos. Solo il pensiero di venire qui mi rende felice. Ed è così anche per mio figlio Homer. Lo portai che era piccolo, ora ha quindici anni e lo ricorda ancora come il viaggio più bello della sua vita».
La segue sempre nei suoi viaggi?
«Macché, non ha tempo. È fissato con la scienza, materia per me incomprensibile. Ma abbiamo scoperto che la sua fisica quantistica e il mio buddismo pongono domande simili: la natura della realtà, della mente, dell’universo. Facciamo discussioni molto animate su questi temi».
E litigate? Che tipo di conflitti avete ora che lui è un adolescente?
«No, nessun conflitto, è un ragazzo molto dolce, sensibile, per nulla antagonista. Certo, questo è un momento complicato, ha iniziato il viaggio verso l’indipendenza, esplora la sessualità. È nell’età in cui da una parte vuole scoprire il mondo ma dall’altra ha ancora bisogno della sicurezza di una casa, di una madre, di un padre. Ha bisogno della sua stanza, del suo letto».
Il momento perfetto vissuto da padre?
«Homer aveva quattro anni, eravamo in spiaggia, al tramonto. Poi è sceso il buio, faceva freddo e ci siamo messi in cammino. D’improvviso è calata la nebbia e in un’atmosfera felliniana è apparso un cervo. Un cervo! Si è fermato a guardarci, poi così come era apparso è scomparso».
E lei, che tipo di figlio era?
«Ero un ribelle. Vivevamo a Filadelfia ed eravamo cinque fratelli. Mio padre lavorava tutto il giorno e mia madre faceva la serva a tutti noi. La ricordo sempre stanchissima. Eravamo una tribù. Quando vivi con altri quattro fratelli devi lottare per ritagliarti il tuo spazio. Io non vedevo l’ora di andarmi a chiudere da qualche parte a sognare».
A sognare cosa?
«La vastità dell’universo mi rendeva attonito. Ci sono due tipi di universo: quello delle stelle – e in quel caso non mi sentivo affatto smarrito pur immaginandone il numero infinito – e poi l’universo che sta in ciascuno di noi. Era questa la vastità che mi sgomentava ma di cui facevo parte. Ovviamente sono cose che ho capito poi, non ne ero consapevole. Ma avevo solo bisogno di guardarci dentro per capire chi ero».
Eravate una famiglia unita?
«Ci volevamo bene, ce ne vogliamo: mio padre e mia madre sono ancora vivi, lui ha novantatré anni, lei novantuno. Abbiamo appena festeggiato i loro settant’anni di matrimonio. Una sorta di miracolo, non crede?».
La recitazione quando è arrivata?
«Mia sorella Susan, che è molto più grande di me ed è psichiatra a Boston, ricorda che non facevamo altro che recitare insieme, ballare e cantare. Progettavamo spettacoli per intrattenere fratelli e genitori. Era quello il nostro compito in famiglia. Non avevamo molti soldi per i divertimenti e la tv allora non era granché. Così, dopo cena, mettevamo in piedi uno show. Poi, da lì, è stato un processo naturale. Ho continuato a recitare nei drammi scolastici e una volta al college, anche se iniziai a concentrarmi sui miei studi di filosofia, contemporaneamente continuavo a partecipare agli spettacoli teatrali».
Suonava anche la tromba.
«Quello è stato il primo strumento che ho imparato, poi sono arrivati la chitarra e il pianoforte. Mi ha insegnato mio padre. Non è un professionista ma suona con un tale trasporto che ti fa venire da piangere».
E quando ha capito che della recitazione voleva farne un mestiere?
«Ci crede? Non l’ho deciso neanche ora. Ma giuro che un giorno lo farò».
Il suo primo film, quello che ha deciso la sua carriera, è stato “I giorni del cielo” (1978), con un maestro schivo come Terrence Malick.
«Schivo, sì, Terry recita benissimo il ruolo del misterioso. Ci siamo visti un paio di mesi fa e abbiamo ricordato i vecchi tempi. Io facevo teatro a New York e Londra, guadagnavo abbastanza ed ero felice. Vidi il suo La rabbia giovane dopo aver letto una recensione. Non avevo mai pensato al cinema ma quando mi chiamò, qualche settimana dopo, mi precipitai. Sei estenuanti mesi di provini. Alla fine dissi “Terry, non ce la faccio più”. Vado a Los Angeles e lui mi telefona in albergo: “Richard voglio davvero che tu faccia il film”. È uno dei momenti in cui capisci che la tua vita sta prendendo una certa direzione. Senti una corrente di energia. Sul set è stato difficile: passavamo il tempo cercando di accontentarlo ma non capivamo cosa volesse. Rispondeva: “Non so neanch’io quel che voglio”. Un giorno dopo venti ciak gli dico: “Terry, cosa vuoi che faccia?”. Lui mi indica una finestra aperta e la tenda mossa dal vento. Dice: “Voglio una cosa come questa”. E io lì ho capito».
Lì cominciò anche la sua carriera. Carriera lunga, quarantanove film...
«Sì, carriera lunga e piena di film belli ma anche brutti».
“American Gigolò” (1980), “Ufficiale e gentiluomo” (1982), sono film belli che l’hanno resa famosa. Ma l’hanno anche trasformata in un corpo sensuale entrato ormai nell’immaginario mondiale. Pochi giorni fa, quando era negli studi Rai, una funzionaria stava per irrompere in diretta pur di abbracciarla...
«Sì, è una cosa pazzesca. E, va detto, c’è anche un mucchio di gente fuori di testa. Ma, le assicuro, è una cosa che non è mai dipesa da me. Io non sono uno che vuole stare al centro dell’attenzione. Anzi. Sono felice quando sto solo con me stesso a passeggiare nel bosco. Lo dico davvero. Non ho bisogno di essere esposto. Mi piace lavorare e vedo me stesso come un lavoratore».
D’accordo, ma come ha fatto a gestire questi quasi cinquant’anni da sex symbol?
«Gestisco la cosa perché la capisco. Ma le ripeto, io so di essere solo un lavoratore. La celebrità è una sovrapposizione concettuale. Non ha nulla a che vedere con ciò che siamo. È una sorta di allucinazione. Già la realtà del mondo è un’allucinazione e questa faccenda della celebrità non è altro che un’allucinazione dell’allucinazione. Solo fumo, niente di tutto questo è reale».
Nel fumoso mondo di Hollywood, tra le amicizie vere, reali, che ama ricordare c’è quella con Robert Altman.
«Bob ed io eravamo molto vicini. Amici, sì. Per lui la vita era un gioco, niente andava preso troppo sul serio. A un certo punto però ha dovuto prendere sul serio il cinema, perché del cinema aveva una sua visione. Usava più camere in contemporanea, controllava continuamente tutti i monitor e parlava con gli operatori guidandoli sottovoce, come fosse in uno show tv. Del resto era da lì che veniva. La postproduzione non era quasi necessaria, tutto sembrava vivo. Prenda il film che abbiamo fatto insieme ( Il dottor T e le donne, 2000, ndr): era molto scritto, eppure sembrava improvvisato. Nei suoi film riusciva a far entrare il mondo in una sequenza. E poi amava vivere in un’atmosfera di festa perenne. Pretendeva che la sera dopo le riprese fossimo tutti a cena da lui a guardare le scene girate. Io volevo andare a dormire: “Bob, ho cinque pagine di dialoghi da studiare, non posso essere fresco domattina”. Si arrabbiava. Eravamo la sua grande famiglia».
Nel ‘93, presentando gli Oscar, si fece alfiere del buddismo e denunciò il comportamento della Cina in Tibet. Da allora non le hanno mai più concesso quel palco. Le sue convinzioni vengono prima della carriera?
«Non ho mai progettato nulla nella mia carriera. Agisco secondo quello che sento. E, a sessantasei anni, posso assicurarle che alla fine è piuttosto confortevole essere autentici. Tanto più che, ironia della sorte, essere te stesso, oltre che facile, ti fa anche avere più successo. Qualunque cosa tu faccia».
Beh, lo ha detto lei stesso prima: non tutti i suoi film sono stati dei successi.
«Sì, ho fatto anche brutti film, ma quando ho deciso di farli sapevo il perché. Ancora oggi posso dirle il perché di ogni film che ho fatto. Il motivo non sono mai stati i soldi, o un premio, ma solo il sentimento del momento. È come in amore, non puoi fingere di essere innamorato. O lo sei o non lo sei. Se non lo sei la creatività si spegne».
Negli ultimi anni si sta concentrando su piccoli film indipendenti. In “Franny”, appena uscito anche nelle sale italiane, indossa i panni di un miliardario filantropo.
«È un personaggio carico di mistero. Non sappiamo molto di lui, non sappiamo quale sia il suo orientamento sessuale né da dove arrivino i suoi soldi. Certamente vive un profondo senso di colpa. Tutti elementi che mi hanno spinto a dire di sì al regista, Andrew Renzi».
Lei ha avuto rimorsi sul lavoro?
«Per esempio avrei voluto che il film con Bob (Altman, ndr) avesse avuto più successo. Perché era un buon film e mi ha addolorato che sia andato male. Altre volte mi è successo di vedere il film finito e accorgermi che non aveva niente a che fare con quello di cui avevamo parlato nei mesi precedenti. Un paio di volte mi sono anche arrabbiato, e parecchio. Ma non le dico quali».
E il suo momento più bello?
«...Mmmhh, difficile rispondere. La verità è che non sono mai contento di me stesso».
Risponda d’istinto.
«C’è una sequenza in Chicago (2002, ndr), quindici minuti con tre diverse scene: in una di queste io ballo il tip tap. Ogni volta che la rivedo mi piace da morire. Rob Marshall ha creato un gioiello. Sono quindici minuti che scorrono come l’acqua, completi in se stessi, meravigliosi».
So che sta per rimettersi in viaggio. In questa Europa che si ritrova blindata per le minacce terroristiche come si trova?
«Non ho paura, non dopo l’11 settembre 2001. Allora vivevo in un appartamento a New York e quel giorno ero partito per andare a un ritiro con un mio maestro in Massachusetts. Ero in macchina e non avevo la radio, guidando guardavo scorrere il panorama. Era una giornata bellissima. Quando arrivai, tre ore dopo, tutti piangevano e non capivo perché. New York è stata sotto shock per tre anni. Ricordo ancora la prima volta in cui non abbiamo affrontato l’argomento nel corso di un’intera cena. Tre anni dopo. Tutti abbiamo sofferto di stress post traumatico, ciascuno a suo modo. Ci vuole tempo».
E i governi? Come dovrebbero rispondere a questa sfida secondo lei?
«Il problema è come non bisogna rispondere. Dopo l’11 settembre noi americani siamo entrati in una spirale di rabbia e di vendetta. Non c’è stata saggezza, la nostra è stata una reazione istintiva, animalesca».
L’invasione dell’Iraq.
«Sì. E guardi quello che è successo. Il mondo che c‘è ora esiste perché noi abbiamo invaso l’Iraq. Ora dobbiamo avere la saggezza, il coraggio, la pazienza di guardare oltre la superficie delle cose e capire. Capire perché gente bianca e ben educata della borghesia commette questi crimini orrendi. Nessuno di noi nasce violento. Nasciamo tutti nell’amore che ci arriva dal soffio vitale, sa?».