27 dicembre 2015
In morte di Carlo Vittori
Gianni Romeo per La Stampa
Carlo Vittori ha raggiunto Pietro Mennea lassù, dove correre è più lieve. E dove c’è finalmente pace per lui, dopo una vita ruggente, esaltante, faticosa. La sua personalità forte, il suo carattere che non ammetteva compromessi non l’hanno aiutato, da tempo si era messo (l’avevano messo) in disparte nel mondo dell’atletica. Proprio lui, il guru, quando bastava dire «il Professore» e tutti intendevano a chi ci si riferiva. Perfezionista e maniacale, faceva ripetere i gesti cento, mille volte, pretendeva dagli atleti dedizione assoluta, allenamenti da fachiri. «Soltanto così si può battere il doping, tirando fuori il meglio con la scienza», diceva. Soltanto così dal bozzolo Mennea tirò fuori la seta, portò un ragazzo pugliese gracile e introverso al record del mondo e al successo olimpico nei 200 metri. Non ci sarebbe stato Mennea senza Vittori. Mentre Vittori c’era già, sarebbe limitativo ricordarlo soltanto per via di Pietro, perché i Pavoni (argento europeo e finalista ai Mondiali nei 100), i Sabìa (due volte finalista olimpico negli 800), i Fiasconaro (primatista mondiale degli 800 all’Arena di Milano), le formidabili staffette 4x100 e 4x400 azzurre che mise in campo ovunque e conquistarono medaglie inaspettate avevano l’inconfondibile marchio di fabbrica: Vittori.
Il Professore aveva imparato da se stesso, raggiungendo con un fisico appena nella norma la partecipazione alle Olimpiadi di Helsinki 1952 e il titolo italiano dei 100 metri. Divenne un tecnico rigoroso, uno studioso che seppe saldare, qui sta la sua grandezza, la teoria con la pratica. Un guru e un uomo di campo che portò la sperimentazione ai massimi livelli dopo il suo incontro con il giovane Mennea, disponibile ad ascoltare, a farsi torturare per raggiungere l’olimpo. Fra i due ci furono momenti esaltanti e tensioni terribili; né odio né amore, soltanto un grande rispetto l’uno dell’altro che s’incrinava quando la temperatura saliva troppo.
Lo sfogo a Montreal ’76
Resta impresso nella mente di chi scrive un episodio mai divulgato. Siamo alle Olimpiadi di Montreal 1976, Mennea è con Quarrie il favorito dei 200. Pochi giorni prima della gara, perdonate la prima persona singolare in questo caso d’obbligo, chiedo un colloquio a Vittori. Si parla, improvvisamente al Professore di granito vengono le lacrime agli occhi. Che succede? Si confida: «Giurami che non lo scriverai, dice, ma ho bisogno di sfogarmi. Pietro non solo non vincerà, ma non andrà nemmeno in medaglia. Si è innamorato di una velocista straniera, non pensa ad altro, ha perso di vista se stesso. Non riesco più a farlo ragionare». Per onorare la parola data spartii con lui quel macigno e non scrissi nulla. Mennea a Montreal arrivò quarto. Il titolo di Mosca ’80 l’avrebbe consegnato alla grande storia. Ma si era già riscattato mille volte, come a Messico ’79 con il record del mondo dei 200. E ci vollero 17 anni, ci volle quel colosso di Michael Johnson per superare un prodigioso 19’’72.
«L’Italia? Non si studia più»
Era uno dei sogni di Vittori quello di allenare un fenomeno Usa. «Datemi un cestista della Nba alto due metri e più, tonico come dico io, disposto ad allenarsi come dico io, e vi dimostrerò che i limiti umani sono ancora lontani». Aveva grande rispetto per Bolt, «uno dei pochi che non va avanti a doping», lo deludeva l’atletica italiana «perché non si studia più». Aveva messo insieme gli appunti di una vita in un libro, «Nervi e cuore saldi». Era diventato un predicatore per fare breccia nell’indifferenza. Purtroppo la sua lezione è finita.
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Emanuela Audisio per Repubblica
Sapeva correre e far correre.
Accese i missili della velocità italiana, fece programmi, realizzò il sorpasso. Con il razzo Mennea viaggiò nel futuro. Con Roberto Baggio, restituito al gioco, scartò vecchi impedimenti culturali. Diede all’Italia una scuola, le fece alzare la testa, la spinse sul traguardo. Con 46 medaglie. Quando ancora non esistevano i Rudic, i Velasco, i Mourinho. Per questo lo chiamavano il Professore: se l’aveva detto Carlo Vittori ogni discussione tecnica s’interrompeva. Aveva costruito il sapere, il culto della resistenza alla velocità, che divulgava e condivideva. Fece di Formia la Nasa dell’atletica azzurra. La sua formula dello sprint era semplice: qualità, fatica, sudore. Come disse Pietro, quel ragazzo magro che con lui condivise il viaggio oltre i confini: «Dietro al mio record del mondo sui 200 metri del ‘79 c’erano undici anni di lavoro, 3.950 giorni di allenamento, compreso Pasqua, Natale e tutte le feste, ottomila ore di lavoro, almeno 5 al giorno, oltre alle gare: 528 di cui 419 individuali e 109 staffette».
Carlo Vittori era un cuore antico e una mente moderna. Burbero, ruvido, polemico. Appena ti vedeva t’inquadrava, aveva uno sguardo penetrante: «Dove crede di andare con quella pelle bianca e fragile, soffrirà di mal di gola per tutta la vita». Era vero. Non era un trasgressivo, per lui contavano autorità e autorevolezza. Rimandò a casa un velocista famoso che era scappato dalla famiglia, convincendolo che un padre va affrontato, ma non ferito con una fuga. Valutava il tono della voce, gli piaceva quella di Bolt: «Da uomo». Sosteneva che l’Nba rubava talenti allo sprint americano: «Se invece di giocare a basket si mettessero a correre molti primati cadrebbero ». Si batteva per record puliti, senza doping e aiuti. «Il sistema delle lepri ha fatto perdere agli atleti la capacità competitiva. Occorrono nuovi sistemi di rilevazione del vento, l’anemometro a 12 metri dalla corsia numero 7 è inutile, e nei 200 serve misurarlo in curva, anche se è di bolina. Basta con tempi ottenuti in gare ridicole e senza controlli».
Era fiero e orgoglioso di quel 19”72, tuttora primato europeo, che se «fossimo tornati a Città del Messico, Pietro avrebbe corso in 19”50». Sosteneva che il corpo umano non può essere «una Ferrari con i freni della Cinquecento » e che era inutile aumentare il motore degli atleti (massa muscolare) se poi la batteria (stimoli nervosi) restava quella. In sintesi: per la prestazione ci vuole la motivazione. A Formia seguiva gli scatti e le ripetute di Mennea con una Vespa e Pietro ridacchiava dicendo che il Professore arriva sempre «dopo». Per tutta la vita si diedero rispettosamente del lei. Come usa tra maestro e discepolo. Erano diversi, ma si erano trovati e da quel connubio di passione e follia era nato un altro mondo e un altro modo di correre. Al quale si erano agganciati Fiasconaro, Sabia, Pavoni, Tilli e tanti altri. Nell’87 la Fiorentina gli portò un talento di vent’anni molto rotto, senza più valore. Si chiamava Roberto Baggio, era reduce da due operazioni al ginocchio (legamenti e menisco). Vittori con un altro tecnico, Locatelli, stabilì modi e tempi della dura rieducazione. Baggio non fiatò, fece solo una richiesta: avere un portiere per tirare le punizioni. E ricominciò: a prendere le misure della porta, a cucire la distanza fra campo e vita. Vittori che non lo conosceva, capì il suo segreto: «Baggio gioca per sé, non per gli altri. Per il piacere di gratificarsi, non per essere adorato. Questo non va agli allenatori, non rientra nello schema ».
Carlo come Pietro erano stati allontanati dal campo e dallo sport. Come sempre l’Italia fa con persone ingombranti. Troppo rompiscatole. Vittori aveva perso ogni illusione sull’educazione fisica e sportiva delle nuove generazioni. Da quando si era offerto di insegnare ai genitori come giocare a casa con i bimbi e nessuno si era presentato alla conferenza. Davanti alla bara di Mennea aveva confessato: «Non è normale che un figlio se ne vada prima del padre». Per poi correggersi: «Intendo un padre tecnico ». Pietro se n’è andato il primo giorno di primavera di due anni fa, Carlo la vigilia di questo Natale. La strana coppia non c’è più. Fine della corsa. E di una splendida stagione dello sport italiano che lasciò il mondo senza fiato.
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Enrico Sisti per Repubblica
STEFANO Tilli, cosa le resta di Carlo Vittori?
«Un burbero di straordinaria qualità che sapeva insegnarti l’arte della velocità. Entravi a Formia, lo trovavi che ti aspettava col suo libro, il cronometro, non perdonava nulla, ma lo sport è questo, una ricerca di perfezione senza appello e lui questo lo aveva capito, soprattutto quando si decide tutto in centesimi di secondo».
Un’esperienza formativa unica, quindi.
«Vittori aveva un carattere tutto suo, eccezionale e scontroso, non voleva intralci al suo lavoro ed era questo il segreto di un metodo che ha creato il meglio della nostra atletica, non amava delegare, spaccava il capello in quattro. C’erano lui e Bosco, a quei tempi, ci fecero eccellere, a Helsinki per l’argento della 4x100 Mennea, Simionato, Pavoni ed io costringemmo Lewis e Smith a ottenere il record del mondo per vincere quell’oro. E tutto andando a prendere i rotoli dalle cartiere di Repubblica per stenderli sulla pista di Formia e sopra la carta misurarci dalla testa ai piedi, soprattutto i piedi, calcolare l’ampiezza dei passi, i tempi d’appoggio. Fisiologia, studi sulla potenza lattacida. Stava nascendo la scienza dell’allenamento. Eravamo all’avanguardia».
Ma scarsa risonanza internazionale.
«Perché all’epoca si gareggiava poco all’estero, Pietro soprattutto, fino all’83 non esistevano i Mondiali e il Grand Prix non era così capillare. Diciamo che l’esperienza di Vittori è rimasta, anche per suo volere forse, un po’ chiusa fra le pareti di Formia».
È mancato qualcosa al suo operato?
«Ai quei tempi non si considerava abbastanza l’aspetto alimentare, che sappiamo fondamentale anche per prevenire gli infortuni. Noi eravamo naif, prima di allenarci andavamo al bar e prendevamo due pastarelle. Ora tutto ciò sembra allucinante. A Dubai il ct della nazionale Rossi ci affiancò un nutrizionista americano. Vittori era troppo verace, era il tramite fra due epoche, non poteva (forse) impratichirsi con gli aminoacidi utili per la fase del catabolismo dei muscoli. A Vittori quel tale non piacque. Lui compensava con quella sua meravigliosa capacità di guidarci nella meccanica del nostro corpo, la ripetitività dei gesti li rendeva perfetti. Un’eredità, temo, che rischiamo di perdere».