La Stampa, 24 dicembre 2015
L’uomo accusato del delitto Caccia nega tutto
«Parlerà. Risponderà alle domande del pm Tatangelo, attendiamo la data del confronto, previsto per gennaio». L’avvocato Basilio Foti è il difensore di fiducia di Rocco Schirripa, il panettiere torinese di 64 anni, originario di Gioiosa Jonica, pluripregiudicato, arrestato martedì con l’accusa di essere uno dei killer del procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, ucciso sotto casa da due uomini con 14 colpi di pistola e revolver, la sera del 26 giugno 1983.
Ieri mattina udienza flash in Tribunale a Milano per la convalida dell’arresto. Schirripa s’è avvalso della facoltà di non rispondere ed è tornato in cella. «Sono io – spiega il legale – ad avergli suggerito, quasi imposto, questa scelta. Lui voleva rispondere a tutti i costi. Ha detto solo di essere innocente e di volere chiarire ogni dettaglio, di avere buona memoria. Mi sembra corretto, prima, esaminare le carte con il mio assistito. Vanno risentite le intercettazioni, tradotte parola per parola. Rispetto la sua decisione di confrontarsi con la procura della Repubblica di Milano ma senza andare allo sbaraglio».
Come lo ha trovato, dopo la prima notte in carcere? «Guardi, sono contento di dire che Schirripa è apparso sereno, deciso a raccontare la sua verità, quella di un uomo, un padre di famiglia, che non c’entra nulla con quel delitto». L’avvocato Foti, nel giugno ‘83, era un giovane praticante e si ritrovò a tutelare il proprietario della famosa 128 usata per l’agguato, rubata dagli assassini: «Mi adoperai perché gli fosse restituita, e ricordo con dolore quei giorni terribili».
Sullo stratagemma delle lettere anonime inviate dalla polizia per indurre i destinatari (Rocco Schirripa, i fratelli Domenico, Giuseppe e Salvatore Belfiore, infine Placido Barresi, tutti pregiudicati) a rivelare quanto sapevano del delitto, il legale è critico: «Se con questa procedura irrituale si arriverà a individuare davvero gli assassini di Bruno Caccia, credo che comunque sia stato un modo di agire utile e dunque legittimo. Ma se è servito solo ad alzare un polverone, attribuendo dopo decenni ruoli e responsabilità gravissime in modo vago, allora non va bene. Qui è in gioco un ergastolo».
Gli replica, in modo indiretto, il capo della squadra mobile di Torino, Marco Martino: «Dopo decenni di indagini, l’unico momento utile per riaprire l’inchiesta era nell’esatto momento in cui il mandante, Domenico Belfiore, fosse tornato libero, solo allora avrebbe potuto, lui che è la figura-chiave, riprendere i contatti con i suoi sodali, di allora ma anche di oggi. L’escamotage delle lettere anonime rientra in questo quadro. Senza Belfiore libero – aggiunge Martino -, non avremmo potuto intercettare nessun dialogo utile per le indagini. Il boss è rimasto in cella 28 anni ed è uscito solo poiché gravemente malato. Ha sempre dichiarato di essere innocente e s’è battuto per ottenere la revisione del processo. Non ha mai cambiato la sua posizione».
Ancora flashback dal passato. Il pubblico ministero Antonio Rinaudo, nell’83, era nel pool anti-terrorismo: «Quella domenica mi telefonò un maresciallo dei carabinieri: “Hanno sparato a Caccia, è morto», mi disse. Pensai subito a un attentato delle Brigate Rosse. L’indomani mattina a Torino si apriva il processo contro l’ala militare delle Br. Nella notte andai con altri colleghi a perquisire le loro celle. Non mi convinse però la rivendicazione a nome delle Br, fatta telefonicamente. Quella mattina i brigatisti chiarirono di non essere stati. “Putroppo”, dissero. E capii che dicevano il vero».