La Stampa, 24 dicembre 2015
È costata più di quattro miliardi
Ci sono voluti 33 anni (di cui nove per i lavori) per fare una variante autostradale di 60 chilometri scarsi che fa risparmiare un quarto d’ora tra Bologna e Firenze. Negli Anni 50 tutta l’Autostrada del Sole, lunga quindici volte tanto, fu realizzata in dodici anni, di cui otto di lavori. Eppure Renzi, in versione premier-operaio, festeggia come un trionfo nazionale il completamento dell’opera avviata quando egli frequentava la prima elementare. Forza Italia, il partito della fallimentare legge-obiettivo, lo accusa di «tagliare nastri non suoi» rivendicando la paternità berlusconiana dell’opera, senza spiegare come mai i lavori, lanciati in pompa magna sotto il governo Berlusconi bis nel 2001, non fossero finiti alla caduta del Berlusconi quater, nel 2011, a dispetto di una previsione di inaugurazione nel 2007. Giovanni Castellucci, amministratore delegato della società Autostrade concessionaria per la realizzazione, esulta perché «i costi sono aumentati solo del 60 per cento». E il direttore di Isoradio, Danilo Scarrone, indimenticato cronista parlamentare di Raitre, fa sfoggio di ironia: «L’apertura della Variante cancellerà uno degli annunci classici di Isoradio: “Code tra Barberino e Roncobilaccio” e della cosa siamo felicissimi». Peccato che un’ora dopo il bollettino del traffico segnali «code sull’A1 con interessamento sia del tracciato storico che di quello di Variante».
In 33 anni non sono mancate sollevazioni ambientaliste e contese giudiziarie, scontri politici e indagini giudiziarie. E soprattutto inaugurazioni, alimentate dalla successione dei ministri: anni fa, se ne contarono quattro dello stesso tratto di galleria.
Il primo progettista della Variante di Valico si chiamava Pierluigi Spadolini, architetto e fratello maggiore di Giovanni, allora presidente del Consiglio. Allora si parlava di «Autostrada camionabile» riservata ai Tir, cosa che scatenò la prima polemica perché qualcuno si adontò per la «ghettizzazione» dei bisonti della strada. Era l’anno del Mundial di Spagna, Paolo Rossi era un ragazzo come noi e Riccardo Fogli vinceva il festival di Sanremo.
Nel 1986, all’apertura dell’anno giudiziario, il procuratore generale di Firenze, denunciando l’aumento di incidenti stradali, minacciò di processare i politici per omicidio colposo, se non avessero costruito la Variante. Nel 1990 il governo Andreotti apriva la conferenza di servizi tra tutti gli enti coinvolti, molti dei quali ostili all’opera. Sette anni di battaglia finché Antonio Di Pietro, nel frattempo diventato ministro nel governo Prodi dopo l’epopea di Mani Pulite, vinse la resistenza dei Verdi e firmò la convenzione con le Autostrade, all’epoca società pubblica. Si pensava di finire tutto nel 2003, ma i lavori sono cominciati nel 2006.
Non esisteva nemmeno un progetto definitivo e corroborato da approfondite analisi geologiche, ma questo si scoprirà anni dopo, quando una frana costringerà a evacuare il paese di Ripoli (c’è un’inchiesta giudiziaria per disastro colposo). Autostrade, monopolista, s’impegnava a realizzare la Variante in cambio di tre cose: l’allungamento della concessione trentennale a gestire la A1 per ulteriori vent’anni fino al 2038 (e a riscuotere i pedaggi); la gestione di tutte le aree commerciali (autogrill); un contributo pubblico nell’ordine di 20-30 milioni di euro l’anno per vent’anni).
Al momento del via libera tecnico nel 2001 si parlava di costi per 1 miliardo di euro, presto lievitati a 2,5. Ora sono diventati 4,1. Nel marzo scorso, nel corso di un’audizione parlamentare, l’amministratore delegato di Autostrade aveva parlato di «costi raddoppiati» fino a 7 miliardi. Il resoconto dell’audizione non è disponibile sul sito web del Senato. Ieri Autostrade ha precisato che si riferiva a un tratto più ampio della Variante e che l’aumento dei costi è tutto a carico proprio e dei pedaggi.
Sull’esecuzione del contratto e sull’entità dell’onere finale a carico dello Stato non ci sono dati definitivi, né da parte della società Autostrade (privatizzata nel 1999 dal governo D’Alema e ora controllata dal gruppo Benetton), né da parte pubblica. Certo è che nel corso degli anni hanno avuto da ridire sia la Corte dei conti sia l’Autorità anticorruzione. Ma questa non è una novità, per le grandi opere all’italiana.