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 2015  dicembre 24 Giovedì calendario

Vita di Dybala raccontata da lui stesso

TORINO. Paulo Dybala, è vero che i primi veri calcioni li ha presi da Gattuso?
«Mi ha guidato solo per pochi mesi ma sì, mi ha insegnato a prenderle. In allenamento mi metteva trequartista e lui mediano: se lo saltavo, mi stendeva. Così ho imparato a gestire il contatto, a difendermi col corpo, ad anticipare gli interventi. Poi è arrivato Iachini che mi vedeva punta e ho dovuto davvero tenere botta con i difensori».
La morale è che il talento ha bisogno dei muscoli?
«Se non sei allenato non ce la fai. Prendete Cuadrado: sembra leggero ma le botte le assorbe, non lo butti giù».
L’unica pulce a sopravvivere è Messi?
«Lo studierò. Conoscerlo è l’unico sogno che non ho avverato, perché quando mi hanno convocato nell’Argentina lui non c’era. Non gli ho mai parlato, non gli ho mai giocato contro ma lo seguo in ogni cosa che fa, da lui credo di poter imparare tantissimo anche a livello umano. Per noi giovani argentini, il riferimento è lui».
Gli argentini meno giovani però non lo amano, perché?
«Perché siamo gente particolare. Al contrario di Maradona, non ha vinto il Mondiale e lo attaccano. Però io i paragoni non li faccio: avevamo Diego, abbiamo Leo e ci lamentiamo pure? Criticare Messi: pazzi siamo».
Dicono: dopo Messi ci sarà Dybala. Sarà così domani?
«Domani ci sarà Messi. Godiamocelo, godiamoci Agüero, Di Maria: allenarmi con loro è una fortuna e un’emozione».
Pensa mai al giorno in cui giocherà assieme a Messi?
«Spessissimo. Credo che gli darò la palla anche se avrà attorno cinque avversari».
Riuscirà a pensarlo come un collega e non come un idolo?
«Mai».
Non è che avrebbe preferito che la Juve venisse sorteggiata con il Barcellona e non con il Bayern, pur di conoscerlo?
«Non sono masochista fino a quel punto».
Lei ha sangue e passaporto italiano e polacco: quanto si sente argentino, in definitiva?
«Al cento per cento, anche se a guardarmi sembro straniero, con questi occhi chiari. Quando ho dovuto scegliere non ho avuto dubbi, non ho mai fatto calcoli, so che nell’Italia o nella Polonia avrei avuto meno concorrenza, ma io voglio giocare nell’Argentina e se non ci riuscissi dovrei farmi delle domande, non cambiare bandiera. Non sarei felice in una nazionale che non sento mia, con un inno che non è il mio, con colori che non sono i miei».
Gli oriundi sono traditori?
«Il mio amico Franco Vazquez ha la mamma italiana. Io di italiano ho solamente un passaporto grazie a una bisnonna di cui non so nulla. Lui si sente italiano, io no».
Lei in realtà è più polacco, vero?
«Vero, ma anche se sembra strano fino a pochi mesi fa non ho mai pensato alle mie origini, almeno fino al giorno in cui ho conosciuto la sorella di mio nonno. Un giornalista polacco ha realizzato un documentario su di me e ha scovato gli ultimi Dybala a Krasniow, vicino a Cracovia. Ho parlato su skype con la mia prozia, adesso sono in contatto con un cugino, ma la realtà è che in Polonia non ho mai messo piede. Era mio fratello Mariano che voleva saperne di più: ha scritto un sacco di carte senza mai ricevere risposte».
Vostro padre è morto che lei aveva quindici anni.
«Non c’era allenamento cui non mi accompagnasse. La malattia è stata lunga, la morte l’ho capita mesi prima che arrivasse. Mi manca moltissimo, però la sua assenza mi ha dato forza, maturità. Sono molto legato alla mia famiglia, mia madre è qui a Torino con me, ma sapevo che se volevo fare carriera non dovevo più dormire a casa, così a quindici anni sono andato a vivere nel pensionato del club. In Argentina si diventa uomini presto».
Così presto da cambiare continente a diciott’anni?
«Io mi ero immaginato di giocare due o tre anni nel River o nel Boca, prima di essere pronto per l’Europa. Ma un giorno è arrivato Zamparini con dodici milioni e sono stato costretto ad andare».
Costretto?
«Mi implorarono di accettare, perché quei soldi sarebbero stati la salvezza del mio piccolo club. Ma guarda caso il presidente è sparito poco dopo avermi venduto e adesso l’Instituto è di nuovo senza soldi, i miei vecchi compagni non sono pagati e tirano avanti grazie ai piccoli aiuti dei tifosi. Provo tanta rabbia perché il mio sarificio non è servito. E ho la sensazione di essere stato usato».
Parlermo è stata la tappa giusta?
«Sì, perché mi hanno accolto come se fossi lì da dieci anni. Però al principio è stata dura: non capivo la lingua né cosa succedesse, non avevo mai cambiato un allenatore prima e faticavo a credere che, come mi dicevano i compagni, con Zamparini era normale. La retrocessione è stata un trauma, ma poi al Palermo ho imparato quello che avrei potuto imparare al River o al Boca. Io volevo arrivare in una grande, il mio destino è stato arrivarci passando dalla Sicilia. I primi tempi non mi sentivo all’altezza. Ma sapevo che se avessi fatto le cose per bene tutto di sarebbe sistemato».
Si ricorda il can can ogni volta che è finito in panchina?
«Ma io sapevo che avrei dovuto aspettare, non ho mai avuto fretta. Le pressioni erano logiche, visto quanto sono stato pagato, però non le ho mai sentite».
Non ha avuto il dubbio che la Juve fosse troppo, per lei?
«No, altrimenti sarei rimasto a Palermo. D’altronde non è che dovessi fare quindici gol nelle prime sei partite. E se Allegri non mi fa giocare, non è perché vuole perdere».
Possibile che non si sia mai arrabbiato per un’esclusione?
«A Palermo mi è capitato, qui no. Allegri l’anno scorso ha vinto tutto, non posso permettermi di incazzarmi con lui».
Cos’ha adesso che prima non aveva?
«Ho acquisito la voglia di vincere, che è una cosa strana è difficile. Dopo la finale di Berlino, tornai con l’aereo della squadra e mi colpì molto un episodio: Marchisio venne a presentarsi e mi disse: “Preparati bene, che l’anno prossimo dobbiamo vincere tutto”. Era incredibile: avevano appena giocato una finale di Champions e invece che alle vacanze pensavano già alla prossima. È lì che ho misurato la distanza tra Palermo e la Juve».
E tecnicamente che distanza c’è?
«Iachini mi voleva prima punta, Allegri mi tiene più indietro. Ho spesso la palla tra i piedi, è il lavoro che faceva Vazquez a Palermo e che qui divido con Morata».
È un ruolo alla Messi?
«Messi gioca dove vuole. Io ho libertà quando attacco purché poi mi impegni a difendere. Messi si può permettere di non farlo».
Si aspettava di imporsi così in fretta?
«Avevo in mente di fare quindici gol in tutta la stagione, ma visto che sono già a dieci dovrò cambiare il numero. Sono più avanti del previsto in tutto».
Ha qualcuno che la aiuta a essere così maturo? Uno psicologo, un motivatore?
«Ho la mia famiglia, che mi dice ciò che gli altri non hanno il coraggio di dirmi, benché io sia molto autocritico e sappia da me cosa non va. I miei fratelli se mi devono dare uno schiaffo me lo danno. Gustavo ha 35 anni, Mariano 32. Lui dicevano che a calcio fosse bravo, ma non ha avuto il coraggio o la volontà che ho avuto io: lasciare tutto e inseguire un sogno».