la Repubblica, 24 dicembre 2015
Il rischio è che la Libia, invece di due governi, ne abbia tre
Il processo per pacificare la Libia da ieri è entrato in una fase delicatissima. Apparentemente la risoluzione Onu non è altro che una nuova tappa in un percorso politico lungo e quasi noioso. Ma da ieri sera di fatto la Libia è sospesa fra 3 governi: due, quelli di Tripoli e Tobruk, sono entrambe diventati illegali, ma ancora controllano confusamente ampi spazi di territorio che presidiano con le loro milizie. Il terzo governo è quello “battezzato” dall’Onu in Marocco il 17 dicembre e “registrato” ieri sera dal Consiglio di sicurezza: per ora è soltanto un governo di carta, che non ha i suoi ministri, non si è installato a Tripoli e riuscirà a farlo solo negoziando con i 2 esecutivi che sono stati appena cancellati dall’Onu.
Per capirci: se l’attuale premier di Tripoli Khalifa Ghweil, che ancora ieri era a Mosca per incontrare il ministro russo Lavrov, rifiuterà di passare la mano (e gli uffici) al nuovo premier, e se le milizie che oggi lo proteggono nella capitale non accetteranno il nuovo governo, la partita diventerà davvero complicata e pericolosa.
Nel testo votato ieri c’è un riferimento esplicito alla risoluzione 2238 del 10 settembre, dove si ricorda che la situazione in Libia «costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale» e garantisce quindi un mandato di fatto ai Paesi che intendano «assistere il governo di unità nazionale», sollecitandone il sostegno, «se richiesto» di fronte a minacce del terrorismo di Is o di gruppi come Ansar al Sharia e Al Qaeda.
Si parla di addestratori militari per formare l’esercito regolare e la polizia libica e della possibilità di assicurare la sicurezza degli uffici del governo e delle ambasciate che dovranno essere riaperte a Tripoli.
L’obiettivo è chiaro: permettere al nuovo governo libico di chiedere alla comunità internazionale di colpire militarmente i gruppi terroristici, seguendo però un piano politico capace di rafforzare la capacità autonoma di Tripoli di stare in piedi. È un obiettivo che ha bisogno di tempo per essere realizzato in maniera ordinata.
Ma i fatti in Libia corrono contro il tempo, e potrebbero portare qualcuno ad accelerare, anche pericolosamente. Ieri il giornale francese Le Figaro ha raccontato nuovi dettagli dei “piani di intervento” contro l’Is. Se quei piani – che hanno come punto centrale attacchi aerei mirati – venissero messi in atto troppo presto, prima che il governo libico sia pienamente in funzione, il risultato potrebbe essere di gettare il paese in un caos ancora maggiore.
Ma l’Is da tempo dalla Libia sta lanciando dei veri e propri segnali di sfida, messaggi che sembrano quasi voler dire”ci stiamo rafforzando e ci stiamo infiltrando sempre più in Libia, vi sfidiamo”.
Tre giorni fa da Sirte lo Stato islamico ha messo in rete un video in cui decine di miliziani incappucciati e vestiti con una divisa grigia sono i protagonisti della nuova “Polizia Islamica” della città in cui nacque e morì Gheddafi. Un video di propaganda che non può che far riflettere chi in Europa sta contando i minuti prima di ordinare ai suoi aerei di bombardare quei poliziotti (innanzitutto Francia e Gran Bretagna).
Proprio per questo martedì in Comitato servizi in Parlamento, il sottosegretario per la sicurezza Marco Minniti ha dovuto fare un discorso dalla doppia valenza: «La minaccia dell’Is in Libia non va minimizzata ma neppure drammatizzata, dobbiamo essere concreti ma anche precisi nella nostra reazione». Come dire che attaccare militarmente l’Is troppo presto, quando le condizioni politiche in Libia non fossero abbastanza chiare, non permetterebbe più a nessun governo di unità nazionale di affermarsi quel tanto che basta per ricevere un sostegno Onu coordinato ed efficace.
E lo stesso ministro della Difesa Roberta Pinotti ha già ricordato che “EunavforMed”, la missione europea anti-scafisti a guida italiana, è già pronta alla Fase 3, quella che prevede il contrasto anche nelle acque libiche e la possibilità di incursioni mirate a terra contro gli scafisti. Insomma, molti piani militari sono pronti a scattare, ma la politica e la diplomazia hanno ancora bisogno di tempo.