Corriere della Sera, 24 dicembre 2015
Briganti, massoni e l’unità d’Italia
Nella copertina del libro di Alfio Caruso appena comparso in libreria Con l’Italia mai! (ed. Longanesi), vengono menzionati gli uomini che nel decennio dal 1860 al 1870 impugnarono le armi per difendere Pio IX. Non erano né mercenari né ladroni, ma principi, conti, marches, duchi, baroni e provenivano da Francia, Austria, Germania e Spagna. Li univa un forte sentimento cattolico e l’avversione nei confronti della nuova Italia che, a loro dire, era in mano alla massoneria. Ma questa versione non stride con il detto: «Principi, conti, marchesi, duchi, baroni, tutti massoni»?
Alessandro Prandi
alessandro.prandi51@gmail.com
Caro Prandi,
Non sempre i detti popolari rispecchiano la realtà. Vi furono certamente casi in cui la nobiltà laica e ghibellina fu attratta dalla massoneria, ma il piccolo drappello di conti, visconti e marchesi che arrivarono in Italia, dopo la spedizione di Garibaldi in Sicilia e l’occupazione piemontese del Sud, erano guelfi, devotamente cattolici, fieri paladini del connubio «trono e altare». La guerra del brigantaggio, come fu definita nell’Italia unitaria, ebbe caratteristiche che anticipano, con alcune ovvie differenze, la guerra civile spagnola. In Spagna, nel 1936, i volontari che combatterono nelle Brigate internazionali volevano fermare la «marea fascista» che stava dilagando in Europa. Nell’Italia meridionale, i nobili francesi e spagnoli erano «legittimisti», decisi a riscattare in Abruzzo e in Calabria le sconfitte subite da alcune dinastie europee dopo la rivoluzione francese. Altri, come Alfio Caruso ricorda nel suo libro, erano invece soldati di ventura, spesso appartenenti alle minoranze cattoliche di Stati protestanti. Altri ancora erano «papalini» italiani, convinti che l’unità della penisola potesse realizzarsi soltanto sotto la tiara del pontefice. Non sapevano, quando partirono, che non avrebbero combattuto soltanto con le formazioni disperse dell’esercito napoletano, ma anche con una accozzaglia di briganti e malfattori, spesso appena usciti dalle carceri del regno borbonico dopo il collasso delle sue istituzioni.
La sorte peggiore fu quella di un ufficiale spagnolo, veterano delle forze carliste durante il conflitto dinastico che aveva diviso la Spagna venti anni prima. Credeva di trovare un popolo in armi e trovò soltanto briganti crudeli, affamati di bottino. Sperò di trasformare le bande del brigante Crocco (uno dei più crudeli) in un esercito di liberazione nazionale e fu tradito, privato delle armi, abbandonato nella mani dei piemontesi. Prima di essere fucilato, disse a un tenente italiano che se fosse riuscito a raggiungere Roma, dove l’ultimo re di Napoli viveva in esilio, gli avrebbe detto che i suoi difensori erano «miserabili e scellerati».
Non tutti i «foreign fighters» furono passati per le armi. Un francese, il visconte di Noë, sbarcò a Messina con due amici (un conte e un secondo visconte) nel gennaio 1861, ma il piccolo gruppo fu catturato dall’esercito piemontese, tradotto di fronte a un tribunale militare garibaldino, custodito in fortezza a Palermo per qualche giorno e trasportato nel carcere militare di Torino per scontare la pena. Ma un provvidenziale intervento del console di Francia ottenne che i tre amici venissero espulsi. Noë raccontò la sua avventura in un piccolo libro (Trente jours à Messine ) che apparve a Parigi pochi mesi dopo.