Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2015  dicembre 24 Giovedì calendario

Muti racconta l’Italia, la musica italiana, il Sud, il rispetto e un sacco di altre cose dimenticate

Riccardo Muti è in Italia per il Natale e per un appuntamento cui teneva molto, a Forlì, vent’anni dopo lo storico concerto con Pavarotti, tenuto per salvare una comunità di recupero a rischio chiusura. «Luciano venne dall’America, gratis e a sue spese – racconta Muti —. Eravamo diventati molto amici. E dire che il nostro rapporto cominciò con una litigata storica. Per un acuto. Avevamo fatto insieme I Puritani a Roma nel 1969. Nella stagione successiva li portammo alla Scala. Ma Pavarotti trovava troppo alto il diapason dell’orchestra. Lui non cedette, io neppure. Lui se ne andò, io me ne andai. Alla fine I Puritani li fecero altri…».
Anche adesso alla Scala si litiga. Ma a nominargli la Scala Muti vorrebbe tirarsi indietro: «Non intendo fare polemiche. È tutto troppo cambiato. Oggi il direttore d’orchestra fa una cosa, il regista un’altra. Il rapporto è totalmente scollato. Un tempo invece era molto intenso. Si voleva fare un Otello ? Il direttore del teatro si guardava in giro per vedere se c’era un Otello. Se trovava un cantante all’altezza sceglieva un direttore d’orchestra, che a sua volta indicava un regista in grado di realizzare nelle scene il concetto musicale del direttore. Nel 1981 alla Scala facemmo Le nozze di Figaro con Strehler. Ci sono le foto che ci ritraggono insieme sul palcoscenico, mentre lavoriamo con la compagnia di canto. Le indicazioni musicali e le indicazioni registiche andavano di pari passo. Strehler aveva grande rispetto per la musica e per ogni dettaglio: voleva che tutti i costumi dei cantanti fossero pronti fin dalla prova iniziale, a un mese dalla prima. Oggi la musica è piegata alle invenzioni, ai capricci, alle interpretazioni personali, sino al limite dell’assurdità».
Di chi è la colpa? «È una tendenza pluridecennale. Nata da regie d’Oltralpe che hanno coltivato non il senso del bello ma il senso del brutto, sino allo stravolgimento dell’opera d’arte. Quando ho cominciato, se la regia veniva criticata si incolpava anche il direttore d’orchestra come corresponsabile del disastro. Se uno va in buca a dirigere, vuol dire che sta approvando quel che avviene sul palcoscenico. Altrimenti, o si manda via il regista, o se ne va il direttore. Io l’ho fatto a Salisburgo, con La clemenza di Tito: ho piantato tutti e me ne sono andato. È colpa anche della critica musicale, che oggi distingue tra musica e regia; come se il direttore d’orchestra non avesse e non dovesse avere occhi a quel che succede sul palco. Anche questa è un’influenza che viene d’Oltralpe, dove la critica dà grande spazio al fatto scenico e molto meno a quello musicale».
Il declino della musica italiana è un tema che Muti affronta malvolentieri. Chicago, i Berliner, i Wiener sono oggi il suo lavoro. Segue però anche i giovani dell’orchestra intitolata a Cherubini – «chiederò a Mattarella e a Renzi di aiutarmi a riportarne in Italia da Parigi le ossa, è già pronto per lui un loculo a Santa Croce» – e la nuova accademia per direttori d’orchestra. A nominargli Bocelli o Allevi, dice solo: «Ognuno deve fare il suo mestiere. Io ho molto rispetto per le canzonette, per il pop. Ma è appunto un altro mestiere». Parla invece volentieri di Claudio Abbado, a quasi due anni dalla sua scomparsa. «I gazzettieri della musica si sono inventati una nostra rivalità, come fossimo Coppi e Bartali. Nulla di più falso. Lui mi stimava, io lo stimavo. Non ci frequentavamo perché siamo di due generazioni diverse: quando io nei primi Anni 60 studiavo composizione a Milano lui già dirigeva. Sono stato amico di Carlos Kleiber, un grande. Ho ammirato Von Karajan e il suo gesto misurato: non occorre gesticolare come un mulino a vento, un’orchestra si può dirigere anche con gli occhi. E un’orchestra, quando arriva un direttore nuovo, capisce subito se ha carisma o non l’ha. Bernstein aveva un gesto più ampio; ma corrispondeva alla sua natura». Meglio Barenboim o Zubin Mehta? «Il primo».
La musica, sostiene Muti, è un elemento fondamentale della nostra identità. «Per questo mi rattrista vedere maltrattata la musica italiana. Dobbiamo aumentare le nostre quotazioni rispetto alle grandi istituzioni nel mondo, non solo operistiche ma soprattutto sinfoniche. Credo che il declino sia cominciato con l’arrivo e poi il trionfo dell’opera popolare. Ma l’opera, se non è fatta benissimo, cala rapidamente di qualità. Noi siamo fermi al repertorio nazionalpopolare, ci siamo un po’ provincializzati. Il repertorio della tradizione è stato travisato, nascosto, adattato ai capricci dei cantanti, oppure stravolto da registi che non sanno di cosa si stanno occupando. Così anche all’estero accade che non prendano sul serio i nostri grandi. Bellini, Donizetti, Rossini, persino il primo Verdi non vengono eseguiti con il religioso rispetto riservato a Mozart, a Strauss, a Wagner; li si affronta con sussiego o in modo scanzonato. Certo, è difficile per musicisti d’Oltralpe, formati sulla complessità della sinfonia, capire la bellezza, la purezza, la semplicità di Bellini, espressione del mondo mediterraneo. Del resto le Alpi separano il mondo del gelo e della sugna da quello del sole e dell’olio. Il nostro sangue circola diversamente. E l’essenza del nostro spirito è la melodia. Pavarotti è stato il più grande dell’ultimo mezzo secolo non solo per la voce, ma perché cantava con quel misto di gioia e di malinconia che è nella nostra natura. Purtroppo l’Italia oggi non riesce più né a soffrire, né a sorridere».
«Sono talmente legato al mio Paese che quando andai per la prima volta a dirigere all’estero – un’orchestra militare nella Praga del 1966, a primavera ancora lontana – la sera andavo a passeggiare sotto la nostra ambasciata chiusa, per vedere il tricolore. Noi dobbiamo difendere la nostra identità. Io sono di cultura federiciana, ho comprato un piccolo terreno sotto Castel del Monte per ammirare l’opera di Federico, che seppe fondere la cultura araba con quella giudaico-cristiana. Sono per l’incontro, ma ogni elemento che turbi e disturbi la nostra identità non è benvenuto. Dobbiamo rivendicare il rispetto assoluto per i nostri simboli: il crocefisso, il presepe. Per il nostro modo di vita. E anche per le piccole cose, come i profumi. Ricordo la prima volta che diressi al Bellini. Era il 1966, e Catania era piena del profumo delle zagare; oggi senti solo quello del kebab. All’Italia devo tutto. In particolare devo tutto al Sud».
«Il Sud in cui sono cresciuto credeva nella severità del lavoro. I maestri erano durissimi. In prima media il professore di latino ci dava del lei. Per un ablativo confuso con un nominativo – «pluit aqua» – mi prese per un orecchio, se ci ripenso sento ancora dolore. Oggi lo arresterebbero. Non dico abbia fatto bene, però insomma sono cresciuto senza alcun complesso. Ora Napoli è degradata. Da anni aspetto un riscatto, una ripresa, l’orgoglio di un’appartenenza a una grande terra che non deve piangere su se stessa, deve ritrovare le immense risorse che possiede».
Di politica Muti non parla: «Quando paragonai Grillo a Iago, che nell’ Otello dice “io non sono che un critico”, mi presi parecchi insulti». E quando fu proposta la sua candidatura al Quirinale? «Pensai fosse una barzelletta». Farebbe il senatore a vita? «No. Ho un altro mestiere. E in Parlamento ci sono già troppi scranni vuoti». Il suo modo di esercitare la passione civile è la musica, lungo la linea che lo collega al suo maestro Votto, a sua volta allievo di Toscanini, che aveva suonato il violoncello per Verdi. «Verdi, come Mozart, è assolutamente necessario all’umanità. Ambedue parlano a noi. Scrisse D’Annunzio in morte di Verdi: “Diede una voce alla speranza e ai lutti/ pianse e amò per tutti”. E nobilitò la nostra musica, emancipandola dallo “zum-pa-pa”. Per questo è grave che sia eseguito così male. Detesto quei critici secondo cui il primo Verdi avrebbe bisogno di essere nobilitato, reso meno volgare. Non c’è volgarità in Verdi. Mai. È la maniera di eseguirlo a essere spesso volgare. La sua popolarità non va scambiata per facilità. Consideri il Rigoletto: un’opera estremamente moderna, falsata di continuo da abitudini esecutive che la stravolgono, spezzando l’arcata unica dell’opera come l’aveva voluta l’autore».
Il sogno di Muti era riportare Maria Callas a cantare Verdi. Al Maggio Fiorentino, nel 1974, con l’orchestra di Filadelfia. «La cercai tramite un amico comune, per proporle di essere Lady Macbeth. Mi chiama una voce di donna. Esordisce con tono scherzoso: “Lei non mi conosce, ma lei sa chi sono io, e io so chi è lei”. Va avanti così per un po’, poi mi dice: “Sono Maria Callas”. Fu una grande emozione sentire quel nome pronunciato da lei. Mi assicura che sarebbe molto felice di accettare. Ma, con il suono tipico dell’ultimo atto del Trovatore, aggiunge: “Oggi è tardi…”. Quanto vorrei che tanti soprani lo dicessero allo stesso modo. È come se quella voce la sentissi sempre».