Corriere della Sera, 24 dicembre 2015
Un muro verde lungo settemila chilometri per fermare l’avanzata del Sahara
Una piantagione grande un terzo dell’Italia, una cintura larga 15 chilometri e lunga 7.400, che dovrebbe fasciare l’Africa da un oceano all’altro, attraversando 11 Paesi da Dakar a Gibuti, dribblando guerre e carestie, coinvolgendo democrazie e dittature. Una gigantesca cintura di eco-contenimento, studiata per frenare l’avanzata del Sahara verso Sud, ridurre la desertificazione del Sahel, ridare fiato a un polmone forestale che nel continente nero si riduce (dati Fao) dell’1% all’anno.
Un sogno inutile? L’unico tipo di Muro auspicabile sulla Terra? Se ne parla dal 2005, ma finora il governo del Senegal è stato l’unico a metterci mano e semi, piantando una fila di 12 milioni di alberi per oltre 150 km. Ora però dovrebbero cominciare anche gli altri. Dopo la Conferenza di Parigi sui cambiamenti climatici, il «Great Green Wall» sembra aver fatto (almeno sulla cartina delle promesse) un decisivo passo avanti. Un recente comunicato dell’Unione Africana, madrina del progetto, fissa i paletti del «più grande piano di sviluppo rurale» mai concepito sul continente. I leader mondiali, guidati dal francese François Hollande, «si sono impegnati a versare 4 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni». L’obiettivo da qui al 2025 è «rinverdire» e riconquistare 50 milioni di ettari.
Gli africani non lasciano una grande impronta ecologica. Con l’11% della popolazione mondiale, sono responsabili del 4% delle emissioni di gas serra. Più che a migliorare l’aria, il progetto della Muraglia Verde punta a migliorare la terra. La desertificazione è una piaga che interessa 500 milioni di persone e il 40% di quella fascia di Africa che si estende sotto il Sahara. Un’area enorme, un problema che negli ultimi anni ha assunto anche un interesse geopolitico e di emergenza globale. Chad, Mali, Nigeria settentrionale, Niger: la siccità può alimentare le migrazioni, favorire movimenti radicali. Un’acacia, milioni di acacie, contro Al Qaeda e Boko Haram?
Quella barriera di miliardi di alberi dovrebbe ridurre l’erosione del suolo, frenare il vento del deserto che spinge la sabbia, favorire la permanenza dell’acqua piovana nel terreno. E dare una prospettiva economica: secondo le stime Onu due terzi della terra coltivabile in Africa potrebbero andare perduti nel giro di 10 anni, se continuasse il tasso di desertificazione attuale. La Muraglia verde cinese non ha dato i risultati sperati anche perché, dicono gli esperti, per «fermare» i deserti dell’Asia centrale sono state utilizzate specie non autoctone (come pioppi e conifere). Per l’Africa, invece, c’è una lista di 37 vegetali «locali» molto resistenti alla siccità. Tra questi l’acacia «Senegalia Senegal», da cui tra l’altro si estrae la gomma. Se vuole avere successo e non restare soltanto un verdissimo rendering, il Grande Muro africano dev’essere concepito come un insieme di interventi di sviluppo sul territorio. Non si tratta soltanto di seminare una grande siepe, sostengono gli esperti del CSFD (Comité Scientifique Français de la Désertification). Ed è fondamentale che le popolazioni vengano coinvolte nel progetto, ne condividano gli obiettivi e i benefici. Altrimenti sarebbe facile per loro distruggere quello che altri – con un progetto calato dall’alto e concepito nelle capitali – hanno seminato. Chi conosce le capre africane, per esempio, sa che esistono pochi animali al mondo così voraci. Date loro spazio, e settemila chilometri di piantine commestibili le farebbero fuori in una stagione.
«Ci sono tante meraviglie nel mondo – ha detto Dlamini Zuma, presidente dell’Unione Africana —. Ma questa può cambiare il nostro futuro». Proteggere il Grande Bosco Orizzontale, dalle capre, dall’incuria e dal clima, sarà ben più difficile che realizzarlo.