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 2015  dicembre 23 Mercoledì calendario

Il problema di Putin col petrolio

Non succederà più che l’economia russa debba subire gli strali delle agenzie internazionali di rating senza reagire. Con gli occhi sulla tempesta scatenata sul rublo dall’accoppiata petrolio a basso prezzo/sanzioni, nei mesi scorsi Standard & Poor’s e Moody’s hanno condannato la Russia al livello junk, quello dei Paesi sconsigliati agli investitori. Sentenza influenzata dalla politica, sostiene la Banca centrale russa. Così è nata Akra, la nuova agenzia di rating nazionale da cui ci si attendono, presumibilmente, giudizi più condiscendenti. Saranno fondati?
La risposta, per l’ennesima volta, è nelle mani dei prezzi del petrolio, un calo così implacabile e prolungato da scoraggiare perfino Akra. Banca centrale russa e Ministero delle Finanze sono i primi a non farsi illusioni. «Dobbiamo prepararci a tempi difficili», avverte il ministro Anton Siluanov. «I rischi per lo sviluppo economico sono in aumento», ammette Elvira Nabiullina, presidente di Bank Rossii. L’uscita dalla recessione si allontana nel tempo, perfino la fiducia di Vladimir Putin è scossa: «Non possiamo stare con le mani in mano», ha detto il presidente alla nazione a inizio dicembre. Infastidito dal fatto di dover apportare ancora una volta correzioni a un budget 2016 che, ipotizzando un barile a 50 dollari, già risulta troppo ottimista. Ma la realtà è sempre la stessa: i conti dello Stato russo si appoggiano per il 44% su quanto portano a casa petrolio e del gas, e quei soldi sono sempre meno.
L’impatto è stato in parte attutito dalla svalutazione del rublo, che aiuta i guadagni in valuta delle major energetiche. Ma il crinale che separa i danni – a partire dall’aumento dei prezzi – dai benefici del rublo debole è sottile, e insidioso. Con un tasso di inflazione al 12,2%, si prevede un brusco aumento del livello di povertà. E lo conferma una recente indagine del Centro Levada, che ha rilevato come ormai due terzi dei russi spenda la metà del proprio bilancio familiare in generi alimentari. Sotto il livello di povertà – sono dati ufficiali – è il 14% della popolazione, 2,3 milioni in più rispetto al 2014.
Eppure il budget 2016, nel difficile dilemma di far quadrare i conti scegliendo tra tagli alla spesa o nuove tasse, ha puntato soprattutto sui primi. O meglio, sulla spesa sociale. Per contenere il deficit al 3% del Pil (percentuale che salirebbe al 5,2% preventivando il petrolio a 40 dollari) il governo si è accontentato di indicizzare al 4% la crescita delle pensioni, e ha congelato per il secondo anno di fila gli stipendi del settore pubblico. Austerity che non riguarda i 40 miliardi preventivati per il salvataggio del settore bancario compresa Vneshekonombank, la Banca di Stato per lo sviluppo, né le spese per la difesa, che crescono dell’1% arrivando a coprire il 4% del Pil malgrado Putin abbia assicurato che l’intervento militare in Siria non incide più di tanto. Comunque sia, il vero termometro dei rischi che la Russia corre se il calo del petrolio dovesse prolungarsi è il Fondo di riserva accumulato proprio con i guadagni del settore energetico. Un “cuscinetto fiscale” sceso ormai sotto i 60 miliardi di dollari, a cui lo Stato intende attingere per finanziare il deficit – 2.400 miliardi di rubli, 33,6 miliardi di dollari. Se i conti peggioreranno, il Fondo di riserva si esaurirà molto rapidamente, certo senza attendere che il petrolio cambi rotta.
Una schiarita all’orizzonte potrebbe venire con il miglioramento delle relazioni con Stati Uniti ed Europa, incoraggiate dai primi progressi dei negoziati per la Siria. Se non ora, il disgelo potrebbe condurre nei prossimi mesi a un allentamento delle sanzioni: quello di cui ha più bisogno la Russia è tornare a finanziarsi con le proprie compagnie sui mercati internazionali, e riconquistare gli investitori. Ma sul fronte dei conti e delle riforme, c’è un’altra grossa variabile che influenzerà pesantemente ogni decisione: le elezioni del prossimo settembre per la Duma, e più ancora le presidenziali del 2018. Dove Putin, inutile dirlo, cerca la riconferma fino al 2024.
Siluanov sa di avere le mani legate. «Nel budget triennale 2017-2019 non potremo ridurre drasticamente i programmi sociali, ma non possiamo neppure permetterci un deficit superiore al 2%», ha detto di recente il ministro. A proposito di una delle riforme più cruciali, quella delle pensioni, nella conferenza stampa di fine anno Putin è stato più vago possibile: «È un problema che esiste – ha chiarito -. Ma voi sapete che la mia posizione è resistere in tutti i modi possibili a un aumento dell’età pensionabile. Non so quando dovremmo farlo, ma non ora».
E di certo da qui alle elezioni qualunque provvedimento pericoloso per la popolarità del presidente sarà lasciato da parte, a dispetto della sostenibilità fiscale russa. «Non è un caso – osserva Alexander Kliment, analista di Eurasia Group – che il budget 2016 preveda una revisione dell’indicizzazione delle pensioni a fine estate, proprio prima del voto. È quasi certo che a quel punto il governo allenterà i cordoni della borsa».
Eppure le riforme di cui ha bisogno la Russia non sono una o due, ha ricordato in un recente intervento a Londra l’ex ministro delle Finanze Aleksej Kudrin, “padre” del Fondo di riserva: «È necessario cambiare la struttura dell’economia o i fattori che la influenzano». Perché attualmente «il potenziale di crescita è molto basso». Kudrin ha elencato appunto la riforma delle pensioni, ha auspicato un aumento degli investimenti in infrastrutture e in capitale umano, e una riduzione di sussidi e spese sociali perché siano meglio focalizzate. Ha parlato di privatizzazioni e di decentralizzazione, perché «la crescita venga dalle regioni». Ma neppure lui si aspetta cambiamenti per i prossimi tre anni e mezzo: «Il periodo pre-elettorale è iniziato – ha detto – e fare manovre strutturali ora è complicato». Anche se, nel frattempo, i fondi di riserva rischiano di prosciugarsi.