il Fatto Quotidiano, 23 dicembre 2015
Il divorzio di Bondi raccontato da Travaglio
“La vita professionale di Berlusconi si fa sempre più fitta di impegni, giornate e notti dedicate al lavoro. La famiglia è serena, ma qualcosa nel rapporto con Carla cambia agli inizi degli anni 80. L’amore si trasforma in sincera amicizia. Silvio e Carla, di comune accordo, decidono di continuare la loro vita seguendo ognuno le proprie aspirazioni… Berlusconi ha sempre avuto un vero e proprio culto per la famiglia”. Per scrivere queste poche righe sul passaggio dell’Amato da una moglie all’altra (con figlia clandestina) senza mai pronunciare la parola “divorzio”, Sandro Bondi aveva lavorato di lingua, lima e carta vetrata per settimane, forse mesi. Ma il risultato finale giustificò tanta devota dedizione: il fotoromanzo “Una storia italiana”, distribuito per posta a milioni di elettori nel 2001, consentì al noto divorziato di sfilare di lì a poco al Family Day. Ora che invece il divorzio tocca a Bondi, ufficializzato ieri col passaggio suo e della fidanzata Manuela Repetti dal gruppo misto all’Ala dei traditori verdiniani, “ruota di scorta della sinistra” come lui l’avrebbe bollato fino a due anni fa, tutto intorno è silenzio. Tace l’Amato ingrato, che un mese fa lo salutò come “sfigato”. E tacciono i renziani, che incassano altri due voti alla Camera, ma preferiscono che non si sappia in giro. Come se il suo nome fosse Nessuno.
E invece è Bondi, James Bondi. L’uomo che lasciò il Pci e le polizze Unipol per unirsi al Cav che gli aveva donato un Mein Kampf autografato nel castello dello scultore Cascella (quello del mausoleo di Arcore). Che dai colli di Fivizzano, nella verde Lunigiana, si trasferì in un orrido palazzo-alveare della Brianza velenosa per avvicinarsi alla Betlemme arcoriana. Che andò a sbrigare la corrispondenza di B. in un ufficietto di Villa San Martino con vista sul mausoleo e le stalle immaginarie di Mangano. Che, terrorizzato dagli aerei, fece per anni la spola Arcore-Roma in treno, prima che inventassero i Frecciarossa, perchè l’Adorato lo voleva a Palazzo Grazioli. Che attese mesi, infilzato dalle malelingue dei rivali Verdini e Scajola e irrorato da solinghe lagrimucce, prima d’agguantare gli agognati galloni di coordinatore forzista. Che condusse Aldo Cazzullo in visita guidata al parco di Arcore e, indicando due molossi, congiunse le pie mani: “Un giorno si pararono di fronte a Dell’Utri e a B., che li ammansì con un grido”. Che – raccontò Sgarbi – quando parlava alle riunioni ed entrava Lui, si faceva piccolo piccolo: “Mi scusi, Presidente, se parlo in sua presenza”, com’è umano Lei.
Che si immolò per smentire le orge eleganti di Arcore: “A casa Sua ci si ritrova con tante belle famigliole. L’unica situazione piccante fu una cena a lume di candela in una notte tempestosa con Fabrizio Cicchitto”. Che, con grave sprezzo del pericolo e del ridicolo, appena il padrone sparava una cazzata, si lanciava a lingua morta giurando che aveva ragione da vendere.
Una volta Silvio raccontò che “nella Cina di Mao i comunisti bollivano i bambini per concimare i campi”, innescando un incidente diplomatico con Pechino, il Fantozzi lunigiano salmodiò: “È paradossale che Prodi e la sinistra esprimano valutazioni indignate contro chi ricorda un fatto storico tragicamente indubitabile, piuttosto che condannare una delle vicende più abominevoli della storia umana e dell’orrore dell’ideologia comunista”. Un’altra volta l’Adorato gli ordinò di premiare al Festival di Venezia il film Goodbye Mama dell’amica bulgara Dragomira Bonev e lui, ministro della Cultura, intuì che il presidente della Giuria Quentin Tarantino non le avrebbe dato il Leone d’Oro. Inventò dunque un finto “Premio speciale della Biennale nel 60° anniversario della Convenzione europea sui diritti umani”, con targa farlocca acquistata in un negozio di coppe e medaglie, con tanto di loghi dell’Ue e del Mibac e premiazione-patacca in una saletta vuota della Biennale con veri ministri (Galan e Carfagna), falsi giornalisti e fotografi, più 32 comparse bulgare aviotrasportate da Sofia.
Sommo vate (senza r finale), sciolse endecasillabi e rime baciate a politici & affini d’ogni colore: da Ferrara (“Antro d’amore”) alla Brambilla (“Fiore reclinato”), da Dell’Utri (“Velata verità”) a Gianni Letta (“Beatitudine presente”), da Veltroni (“Foglio mio ritrovato”) a Bertinotti (“Disperata speranza”), giù giù fino a Cicchitto (“La mia fede è la tenerezza dei tuoi sguardi”) ed Elio Vito (“Fra le tue braccia intenerito ardore”), su su fino a Silvio (“Vita nova”) e a mamma Rosa (“Madre di Dio”). Liriche che gli valsero, sul Foglio, un paginone dal sobrio titolo “Il Nuovo Bottai”. Solo che Bottai non aveva mai detto del Duce, come lui di B.,che“svolge un’azione storica all’altezza delle sue vocazioni universali”, “dovremmo dargli una medaglia per gli stessi motivi per cui è imputato da una muta di pseudomagistrati”, “è enormemente buono, per Lui andrei anche in carcere”, “dobbiamo difenderlo fino al sacrificio del nostro corpo”, “spero di non dover mai scegliere fra Lui e la mia famiglia”. Nè aveva mai esaltato la sua “forza morale, religiosa, umana” di “luminoso imprenditore cattolico con venature giansenistiche”, “il più vicino al pensiero femminile”, autore di “molti miracoli”, dunque “da studiare nelle università”, paragonandolo a Olivetti, ma anche ad “Aristotele, Platone, Domenico, Agostino e Gioacchino da Fiore” (e in tandem con Dell’Utri).
Bondi disse pure, nel 2004: “B. ci guiderà per i prossimi 30 anni”, “Lui rappresenta il futuro dell’Italia e del centrodestra, dopo di Lui non c’è nessuno”. Ma solo perchè non aveva ancora visto Renzi.