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 2015  dicembre 23 Mercoledì calendario

Nella casa di Dino Buzzati

Il grande palazzo razionalista si affaccia sui giardini di Porta Venezia di Milano. All’ultimo piano l’universo di Dino Buzzati è tutto nella casa custodita da sempre da Almerina, la “moglie bambina” con la quale divise qui i suoi ultimi sei anni, fino al ‘72. Si sposò che aveva 25 anni e da allora ha conservato questo sacrario laico gelosamente, fino a giusto un mese fa, il 22 novembre, quando se n’è andata per sempre. C’è la scrivania di Buzzati e c’è il divano di pelle sul quale ticchettava con la macchina da scrivere sulle gambe, nella notte. Ci sono libri ovunque.
Ma più dei libri parlano i quadri. Tanti di amici pittori. Tantissime tele firmate dallo stesso Buzzati. Riempiono ogni angolo delle pareti e del soffitto, sì del soffitto – “come gli affreschi”, amava dire lo scrittore. Nel salotto, nello studio, nel corridoio, nello spazio vuoto sopra i pensili della cucina, quello sopra la testata del lettone: stretti stretti, uno accanto all’altro, come nei Salon parigini di una volta, come nelle antiche quadrerie. Spicca Piazza del Duomo di Milano dipinto nel ‘52 da Buzzati con rocce dolomitiche al posto delle guglie e affacciato su un grande prato. Un quadro che mette insieme le origini dell’autore del Deserto dei Tartari (nato in Provincia di Belluno) e la sua vita da “straniero” nella capitale lombarda, dove lavorò per il Corriere della sera dal 1928 al ‘72. Da ogni angolo ti guardano i grandi cani dagli occhi enormi di Buzzati. E da un angolo del salone ti fissano i veri occhi di bambola che Dino trovò in una fabbrica dismessa e poi mise sui volti de Le buone amiche, dal ciclo delle “Storie dipinte”, una cinquantina di quadri accompagnati da brevi didascalie. Per completare il racconto, aggiungere elementi, spiazzare. Qui, il Buzzati infelice di Un amore rappresenta l’amore sacro e quello profano. In corridoio ha gli occhi chiusi il Babau, l’amico-nemico dei bambini, nero, goffo, tondeggiante, ucciso dalle guardie, a pancia all’aria. Che poi è la fantasia. «Galoppa, fuggi, galoppa, superstite fantasia. Avido di sterminio il mondo civile ti incalza alle calcagna, mai più ti darà pace», scrive Buzzati nel racconto uscito nel ‘67 sul Corriere della sera e raccolto nel suo nuovo Bestiario.
Ecco, il Bestiario. Grazie a Lorenzo Viganò – già ottimo curatore di una dozzina di opere buzzatiane – esce in una edizione (Mondadori) mai così completa. Rispetto a quella del 1991 che raccoglieva 36 racconti e 14 pezzi, qui ci sono centinaia di storie edite e inedite e articoli divisi in due volumi. Un catalogo fantastico di bestie e racconti, ma anche una sorta di memoir di Buzzati e dell’Italia. Tra il 1932 e il 1970. Storie di animali sulla tracotanza umana che fanno male, con tanto di morale alla Esopo. Ma anche qualcosa di più. Chi è il leopardo morto suicida per aver mangiato per troppa voracia un riccio, ad Addis Abeba, giusto nel ‘39, dove Buzzati fu corrispondente di guerra? Chi la “gallina zero”, la prima della classe, «la più brava delle 13.499 galline che dà alla luce 308 uova al giorno» scritta l’8 dicembre del ‘33?
In cucina, occhi tutti diversi, grandi e provocanti, e volti e nudi di donna, su pannelli in metallo incisi sui disegni di Buzzati, tra pittura metafisica e Pop Art. La stessa mano delle tavole di Poema a fumetti, il mito di Orfeo ed Euridice rivisitato in chiave erotica. Uscì nel ’69 e fu un coro di critiche. «Fu accusato di essere un reazionario che non voleva uscire dal suo mondo di balocchi. In realtà era un rivoluzionario che anticipò la graphic novel», spiega Viganò, che a RepubblicaTv ha aperto per la prima volta le stanze segrete dello scrittore. Dall’alta finestra del palazzo si vedono i giardini del vecchio zoo come li vedeva Buzzati. E come li sentiva. Nella “Petizione al signor sindaco” l’autore denuncia «uno stanco ululato, un lento e feroce singhiozzo» della povera “sorella foca” che non lo fa dormire. «Si lamenta singhiozza piange e chiama – si legge – e noi senza saperlo siamo dentro di lei e la sua animalesca voce è pure la voce dell’anima nostra».