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 2015  dicembre 23 Mercoledì calendario

Basta giudici e tribunali, meglio estrarre a sorte le sentenze. La riscoperta di un romanzo dispotico scritto da un avvocato parigino nel ’54

Finalmente, dopo un’imbarazzantissima impasse da record, il Parlamento italiano ha eletto i giudici costituzionali mancanti. E allora, in fin dei conti, non sarebbe stato più rapido e indolore (al netto del prestigio dei giuristi nominati) sorteggiarli? Una domanda a cui alcuni risponderebbero, senza esitazioni, di sì; da qualche tempo a questa parte, nel dibattito pubblico è tornato di prepotenza il tema della designazione delle cariche pubbliche attraverso la sorte. Da intendersi, quindi, non più come destino cinico e baro, ma come una sorta di fato provvidenziale. Al cospetto della «sindrome da stanchezza democratica» si sono affacciate, nel giro di poche settimane, varie ricette, dall’integrazione delle elezioni con l’estrazione dei rappresentanti del popolo sostenuta da David Van Reybrouck (nel suo Contro le elezioni, Feltrinelli) alla sfida-proposta di Michele Ainis del sorteggio, appunto, dei componenti della Consulta.
Il caso e il diritto
Eterni ritorni, per certi versi. Anche un importante giurista parigino, Jacques Charpentier (1881-1974), era attirato dall’idea del legame tra il caso e il diritto, e sessant’anni fa lanciò per via romanzesca la provocazione di una sorta di lotteria della giustizia che ne rimpiazzasse gli «apparati». Lo fece in un libretto, Justice 65, uscito nel 1954 in poche copie (e praticamente subito scomparso), che viene ora riscoperto dall’editore Liberilibri e mandato sugli scaffali col titolo di Justice Machines (traduzione e cura di Guido Vitiello, pp. 104, € 14).
Un conte philosophique (come piaceva ai francesi) sotto le fattezze di una distopia (o, chissà, utopia…) di «fantascienza giudiziaria», una storia originale (e l’unico cimento narrativo) di un personaggio anch’egli piuttosto fuori delle righe. Charpentier fu infatti un avvocato molto rinomato, bâtonnier (ossia presidente del collegio forense) negli anni del regime di Vichy e dell’occupazione nazista della Francia – un ruolo che svolse tra luci e ombre, difendendo l’indipendenza del suo ordine, per ammettere tuttavia nel dopoguerra anche le proprie responsabilità nell’applicazione dell’aberrante legislazione antisemita. Liberal-conservatore, era infastidito dalle filosofie della storia teleologiche e finalistiche, e rivendicò a ogni piè sospinto la natura «borghese» della Rivoluzione del 1789 in polemica con le sinistre del suo Paese.
Al centro del racconto c’è un giovane legale che si risveglia appunto nel 1965, dopo un decennio di letargo (e una devastante guerra, di cui il lettore nulla sa) in un ospedale. Dopo essere stato dimesso, fa ritorno a Parigi, senza il becco di un quattrino e senza la rete di protezione di amici e parenti, e decide quindi di rivolgersi alla sua seconda «famiglia»: l’avvocatura. Corre così al palazzo di Giustizia finendo però davanti a una serie di cose decisamente inattese. Il deserto, niente del brusio e della solennità del «tempio» nel quale si decidevano i destini di imputati e innocenti. O, meglio, soltanto qualche rumore proveniente dalla «Sala dei passi perduti», il cuore del tribunale che, per lo stupore del malcapitato protagonista, era stata convertita in una piscina per il nuoto sincronizzato degli avvocati.
Ma non è tutto, visto che il giurista revenant si ritrova a dover fronteggiare una sorpresa dietro l’altra. La facoltà di Diritto è stata abolita, e sostituita da una sorta di veloce tour guidato del palazzo di Giustizia, mentre una delle principali occupazioni (e preoccupazioni) degli studi legali è ora quella di ingaggiare «praticanti» e partner che si distinguano in qualche sport, dal momento che i cabinets (trasformatisi di fatto in «club giudiziari») si sfidano a colpi di pallone più che di codici e pandette. Già, perché la macchina tradizionale della giustizia – quella che nella narrazione (sublime perfidia) viene denominata «antico regime» – è stata smontata e surrogata dalle Justice Machines.
Le Justice Machines
Niente più magistrati, dal momento che «la loro missione avrebbe richiesto una cultura pressoché universale, l’esperienza della vita e la conoscenza di tutti gli ambienti sociali, delle buone maniere, una morale rigorosa, il senso del bene pubblico temperato da una grande umanità, quell’attitudine a distinguere il vero dal falso che chiamiamo giudizio (…) e un senso della propria responsabilità che avrebbe dovuto privarli del sonno».
E, dunque, meglio affidarsi alla «dea bendata», anzi a «tecno-giudici», vale a dire macchine calcolatrici a schede perforate (secondo il livello del progresso di quei decenni) che estraevano a sorte le sentenze. E in questo Charpentier coglieva naturalmente anche lo spirito dei suoi tempi, nei quali l’informatica giuridica stava muovendo i primissimi passi, e la cibernetica risultava al centro della discussione culturale. Come vada a finire la convivenza tra macchine «giudicanti» e genere umano avvocatesco non lo riveleremo. Ma assicuriamo che in questo manifesto letterario-ideologico-cibernetico dell’antigiustizialismo d’antan non mancano i colpi di scena.