La Stampa, 23 dicembre 2015
La storia di Bruno Caccia, il giudice che aveva capito tutto
«Hai visto Caccia? L’abbiamo fatto noi. Dovreste dirci grazie». Ha la parlata orgogliosa Domenico Belfiore, boss della ’ndrangheta a Torino, quando, un anno e mezzo dopo l’assassinio del Procuratore, si confida in carcere con Francesco «Ciccio» Miano, il capo dei catanesi. Non sa che Ciccio è un pentito e gira per l’infermeria con un registratore nelle mutande.
Catanesi e calabresi avevano trovato una convivenza nella spartizione degli affari, ma Belfiore guardava avanti e guardando avanti aveva intuito che non gli scontri fra mafie, bensì quel magistrato era la barriera inaggirabile tra loro e il futuro. Caccia aveva consapevolezza che il fenomeno cruento ma rozzo degli Anni 80 si stava affinando per entrare come olio in ogni tessuto della società attraverso il riciclaggio del denaro (allora assiduo nei casinò) per poi assimilarsi a commercio, impresa e di qui a politica e voti e appalti.
«L’abbiamo fatto noi» era orgoglio d’un gesto feroce e orgoglio d’aver spianato la via. Da metà Anni 70 Torino viveva con inquietudine sui suoi marciapiedi le pagine noir di Giorgio Scerbanenco, ma a cavallo fra ’70 e ’80 era ancor più provata dalla cascata di sangue del terrorismo: dopo i primi omicidi (dall’avvocato Fulvio Croce a Carlo Casalegno e Carlo Ghiglieno) erano brucianti quelli dell’82 (le guardie Mondialpol Antonio Pedio e Sebastiano d’Alleo) e la lotta armata era priorità assoluta. E la mafia «liquida» si espandeva silenziosa.
Torino nera aveva convissuto con una delinquenza arcaica che da casa e dai night club organizzava bische e prostituzione e cominciava a trovare appetitoso uno spaccio di droga ancora disordinato. Negli Anni 70 il capo indiscusso si chiamava Rosario Condorelli, catanese d’origine. Una sera, nel ’75, entrò alla pizzeria Marechiaro, per mangiare un boccone, il commissario di polizia Francesco Rosano. Gli sguardi s’incrociarono, i due si riconobbero e Condorelli gli sparò subito, uccidendolo tra gli avventori. Torino capì che il «finché i malviventi si ammazzano fra loro...» non era una grande verità.
La guerra «fra loro» ricominciò presto, e dura. Dalla stessa Catania salirono i fratelli Miano, Francesco detto «Ciccio» era il capo. Condorelli arrestato e incarcerato, i Miano fecero piazza pulita dei suoi. Presero possesso della città, a colpi di pistola e scalando nuovi affari, droga soprattutto, che apriva un altro fuoco, quello con i calabresi, fino allora impegnati più sul fronte dell’edilizia, del racket delle braccia, delle estorsioni, dei sequestri di persona.
Se già i calabresi si muovevano in silenzio, più «liquidi» appunto, i catanesi erano spavaldi. Dirà poi Ciccio Miano: «Ero il capo. Avevo il mondo ai piedi. Mia moglie era una regina, i negozianti le regalavano tutto». Abitavano in un grande cascinale sontuosamente ristrutturato fuori Torino, nel cortile Ferrari e Mercedes. Incontravi uomini del clan nei bar. Uno di loro (poi finito con una palla da cinghiale in fronte sul pianerottolo di casa) sfotteva i cronisti affannati intorno a un telefono a gettoni: «Pieni di fantasia, ma, poveretti, devono mangiare anche loro».
Il 28 settembre 1984, in lungo Dora Voghera, un ometto piccolo e tozzo, davanti a un distributore di benzina, uccide un uomo a rivoltellate. Passa una volante e la sparatoria si allarga. Lui si butta nel fiume e gli agenti dietro, lo catturano. Si chiama Salvatore Parisi, è il killer di fiducia dei Miano (confesserà sedici omicidi). In questura siede davanti a funzionari d’eccezione – Piero Sassi, Aldo Faraoni, Salvatore Longo, oggi questore di Torino – e con loro e con i magistrati incomincia a parlare. Come prova di credibilità, offre un nome e un indirizzo: la Squadra Mobile di Torino cattura Angelo Epaminonda, boss della malavita a Milano. È la fine dei catanesi. Si pente Ciccio Miano (suo fratello sarà ucciso per vendetta) e si presta alle registrazioni in carcere.
«Caccia l’abbiamo fatto noi», gli dice Belfiore. Ma non svela a fondo la vera ragione, che nel clima di quegli Anni 80 era inquinata anche da fasulle e subito poco credibili rivendicazioni delle Br. Tanto che al maxiprocesso di terrorismo si alzò Francesco Piccioni dell’ala militarista e dichiarò: «Noi non c’entriamo. Quello è un omicidio al quale purtroppo siamo estranei».
La ’ndrangheta si ritrovò liberata in un colpo solo dall’ingombro dei catanesi e del magistrato che, partendo dal riciclaggio (proprio per questo filone d’indagine il 13 dicembre 1982 subì un attentato Giovanni Selis, magistrato ad Aosta), si muoveva in anticipo verso le future strategie affaristiche nel Nord. Quelle che troveremo nel 1995 con l’operazione Cartagine, nel 2012 con l’operazione Minotauro, nel 2010 con l’operazione Infinito. Il disegno per il quale andava eliminato l’uomo che trentadue anni fa costituiva la più potente barriera.