Corriere della Sera, 23 dicembre 2015
I verbali inediti del processo Cucchi
C’è un possibile movente del «violentissimo pestaggio» subito da Stefano Cucchi, nelle carte dell’inchiesta bis che ha portato all’accusa contro tre carabinieri per le lesioni e altri due per falsa testimonianza. Ai militari-investigatori che cercavano informazioni sulla droga venduta (provenienza, fornitori, nascondigli), il trentunenne morto dopo una settimana di reclusione oppose un silenzio che potrebbe essere la causa delle percosse. Lo ha rivelato un nuovo testimone, ascoltato per la prima volta dalla Procura di Roma nel novembre 2014: Luigi L. ha 46 anni, è un ex detenuto che incontrò il geometra (tossicodipendente-spacciatore) nel centro clinico di Regina Coeli all’indomani dell’arresto; a confidargli la ragione delle botte, dice, fu proprio Stefano.
«Io ero detenuto nella cella numero 3 al reparto Medicina – ha raccontato al pubblico ministero Giovanni Musarò —. Quando arrivò Cucchi lo vidi passare con la “zampogna” (cioè con gli effetti forniti dall’amministrazione penitenziaria: una bacinella, una coperta, lo spazzolino, eccetera). Ricordo che si fermò davanti alla guardiola e io, quando lo vidi, immediatamente gli chiesi: “Chi ti ha ridotto così?”. Cucchi alzò gli occhi al cielo e non mi rispose; forse ebbe paura a rispondere davanti all’agente della polizia penitenziaria, ma ritengo che fosse una paura infondata. Aveva il viso tumefatto... era evidente che era stato picchiato. Aveva tutto il viso gonfio, anche all’altezza del naso. In passato ho visto tante persone picchiate, ma non avevo mai visto nulla del genere».
Il giorno successivo i due si incontrarono di nuovo, e Luigi L. tornò a fare domande: «Ricordo che non riusciva quasi a parlare, né a prendere il caffè, per come era ridotto. Aveva un forte dolore all’altezza della guancia destra... Aveva dolori dappertutto. Io in passato ho avuto diversi problemi con la polizia penitenziaria, per cui dissi a Cucchi che se era stata la Penitenziaria a ridurlo in quelle condizioni noi avremmo fatto un casino... Cucchi mi rispose che era stato picchiato dai carabinieri all’interno della prima caserma da cui era transitato nella notte dell’arresto. Aggiunse che era stato picchiato da due carabinieri in borghese, mentre un terzo, in divisa, diceva agli altri due di smetterla».
Testimone attendibile
Ed eccoci al motivo del pestaggio: «Quando mi disse di essere già comparso davanti a un giudice, io gli chiesi la ragione per la quale non avesse denunciato in aula quanto accaduto, ma lui rispose che non l’aveva fatto perché dopo l’udienza sarebbe stato preso in carico nuovamente dai carabinieri che lo avevano arrestato, i quali, se avesse denunciato, lo avrebbero picchiato di nuovo. Chiesi a Cucchi quale fosse stata la ragione di un pestaggio così violento e lui rispose: “Perché, non lo sai? E che dovevo fare, tu l’avresti fatto?”. A quel punto compresi cosa intendeva dire e gli chiesi se gli avessero proposto di fare la fonte confidenziale (la “spia”) e lui aveva rifiutato; il Cucchi mi fece intendere che le cose erano andate così e rispose: “Più o meno è andata come dici tu”. A quel punto gli feci i complimenti e gli dissi: “Per me sei stato un grande”».
Aggiunge il testimone che quando gli chiese di mostrargli i segni del pestaggio, Stefano «si tolse la maglietta; restai impressionato, sembrava una melanzana. In particolare faceva impressione la colonna vertebrale, che era di tanti colori (giallo, rosso, verde); aveva ecchimosi dappertutto».
Per gli inquirenti Luigi L. è attendibile: altre persone hanno confermato i particolari riferiti, ma soprattutto il testimone – si nota nell’informativa firmata dal capo della Squadra mobile Luigi Silipo, allegata alla richiesta di incidente probatorio – «faceva riferimento a una circostanza che, nel momento in cui rendeva la dichiarazione, era ignota: il fatto che Cucchi avrebbe avuto un contatto diretto con due carabinieri in borghese». Un dettaglio svelato solo dalle nuove indagini; i due in borghese non comparivano nemmeno nei verbali d’arresto, non erano stati interrogati durante la prima inchiesta né al processo, e ora sono fra i nuovi indagati.
L’intercettazione
L’ipotesi che da Cucchi i carabinieri volessero informazioni non deriva soltanto dal successivo ritrovamento, nella casa dove abitava da solo (sconosciuta agli investigatori), di un etto di cocaina e un chilo di hashish. In un’intercettazione telefonica del luglio scorso il maresciallo Roberto Mandolini – all’epoca dei fatti comandante della stazione dei carabinieri Roma Appia, ora indagato per falsa testimonianza – rivela a una sua interlocutrice che Cucchi in altre occasioni era stato collaborativo con i carabinieri: «Perché qualche nome gliel’ha fatto, e gli ha fatto fare altri arresti». Un particolare che Mandolini non riferì al processo, come tacque su altri dettagli che gli avrebbe riferito Cucchi; per esempio i presunti cattivi rapporti tra Stefano, i genitori e la sorella «che da due anni non gli faceva vedere i nipotini».
Se le parole del maresciallo rispondessero a verità, e quindi se in passato Cucchi abbia fatto il confidente, rafforzerebbero l’ipotesi che i carabinieri pretendevano da lui nuove informazioni; soprattutto dopo l’inutile perquisizione a casa dei genitori. Altrimenti Mandolini (che poteva immaginare di essere intercettato) può aver tentato di screditare la figura del detenuto morto. Certamente il padre e la madre di Stefano, scoprendo che era ricaduto nel giro della droga, poterono apparigli adirati e ostili. Con la conseguenza di provocare qualche atteggiamento violento da parte di Cucchi nei confronti dei carabinieri, come raccontano i nuovi indagati in qualche recente intercettazione. Con successiva reazione. Ma all’epoca nulla di tutto questo fu scritto nei verbali, né resistenze né altro. Perché?
Solo Mandolini e i suoi colleghi possono sciogliere questi retroscena, ma quando sono stati convocati da inquisiti in Procura hanno preferito non rispondere alle domande del pm. Com’è loro diritto.