la Repubblica, 23 dicembre 2015
Rosi, Boschi e quel gruppo di alti dirigenti che ha sbancato l’Etruria
Banca Etruria è stata governata nell’ombra. Negli ultimi quattro anni le mani di pochi hanno mosso le leve del comando, con la complicità colpevole di tutto il consiglio di amministrazione. “Un consesso – per dirla con le parole degli ispettori di Bankitalia – che si è limitato a ratificare scelte e decisioni assunte in altre sedi”. Sedi che a volte si chiamano “Commissione consiliare informale”, a volte “Alta direzione”, a volte portano solo il nome del direttore generale Luca Bronchi.
Le carte finora rimaste inedite della seconda ispezione di Bankitalia, quella che si svolse dal 18 marzo al 6 settembre 2013 e che ha fatto aprire due inchieste dalla procura di Arezzo (false fatturazioni e ostacolo alla vigilanza), raccontano di riunioni durante le quali apparivano davanti agli occhi dei consiglieri documenti mai visti prima e che era proibito stampare. Di audit interni il cui esito mutava da “negativo” a “parzialmente adeguato” senza motivo. Della gestione disastrosa della sicurezza informatica, tanto da mettere a rischio la privacy dei clienti. Di modelli di distribuzione del credito “a maglie larghe”, con esposizioni elevate su “clienti pluriaffidati”.
LA COMMISSIONE INFORMALE DI BOSCHI
Repubblica nei giorni scorsi ha dato conto della terza ispezione Bankitalia (novembre 2014-febbraio 2015), nella quale emerge il ruolo non chiaro della cosiddetta “Commissione consiliare informale”. È nata dopo il cambio del cda nel maggio 2014 ed era formata dal presidente Lorenzo Rosi, dai due vice Alfredo Berni e Pier Luigi Boschi, dai consiglieri Santoanastaso, Nataloni e Salini. Come funzionava? Discutevano tra loro in privato, poi chiedevano al cda di ratificare ciò che avevano deciso. È avvenuto nel caso della fusione con la Popolare di Vicenza, “l’unica offerta giuridicamente rilevante”. La Commissione informale decise che non andava fatta e che non fosse opportuno sentire l’opinione dei soci. Scrivono gli ispettori: “La scelta di non sottoporre al voto dell’Assemblea l’offerta vincolante non è stata sostanzialmente dibattuta in consiglio, il quale si è limitato a pren- dere atto della posizione comunicata dal presidente. L’assenza di qualsiasi verbalizzazione delle attività svolte da tale ‘commissione’ ha concorso a rendere poco trasparente il processo decisionale”.
GLI AMMINISTRATORI MUTI
Non era una novità per Banca Etruria. L’abitudine di concentrare il potere in comitati ristretti c’era anche durante il mandato del presidente Fornasari. Si scopre dai risultati della seconda ispezione, e – soprattutto – da ciò che ha dichiarato alla Guardia di Finanza il capo del pool inviato da Bankitalia, Emanuele Gatti. “Il cda ha sostanzialmente abdicato al proprio ruolo, lasciando ampia discrezionalità all’Alta direzione, composta dal direttore generale (Luca Bronchi, indagato) e dall’alta dirigenza munita di poteri delegati”. La prassi era la solita: si incontravano pochi minuti prima dell’inizio dei cda, poi andavano in consiglio sostenendo che “per motivi di riservatezza” non avevano potuto presentare prima i documenti sottoposti al vaglio né potevano stamparli su carta. “Sono stati messi a disposizione dei consiglieri solo all’apertura della seduta – scrive Gatti – il consuntivo trimestrale, l’informativa sui rischi, la revisione del budget e del piano industriale, nonché tutte le proposte di affidamento”. Vale a dire, tutti i documenti più importanti. All’interno del cda, però, nessuno batteva ciglio. “Tale prassi – aggiunge Gatti – non è mai stata oggetto di rilievi degli amministratori”.
GLI INUTILI AUDIT INTERNI
E nemmeno gli audit interni servivano a qualcosa, perché “i report mostravano talvolta una limitata coerenza tra la gravità delle disfunzioni rilevate e il giudizio complessivo”. È il caso ad esempio di una verifica sulla gestione dei crediti e delle sofferenze che viene chiesta ai responsabili dell’audit nel 2012, a seguito di alcune anomalie segnalate l’anno prima. Gatti voleva capire se erano state superate, ma si era accorto che qualcosa non andava. “A fronte del mancato superamento delle anomalie – sostiene – le verifiche dell’audit si chiudono con un aggiornamento del giudizio da ‘negativo’ a ‘parzialmente adeguato’”. Niente era cambiato, eppure il problema si era risolto da solo.
LA PRIVACY VIOLATA DEI CLIENTI
Si scopre poi che la sicurezza informatica era un colabrodo, e che le falle erano generate da “alcune lacune” nel contratto siglato con l’azienda di servizi digitali Cedacri. “È consentito – rilevano gli ispettori di Bankitalia – agli addetti allo sviluppo applicativo accedere, in via diretta e in assenza di autorizzazione da parte della banca, agli ambienti di produzione, indipendentemente dall’esigenza di intervento su errori nel software”. Non solo. “Gli ambienti di addestramento e test utilizzati da Cedacri contengono i dati in chiaro della clientela, e la banca non presidia le fasi di estrazione delle informazioni da parte di Cedacri che non necessita, ai termini di contratto, di autorizzazione preventiva”. E ancora. “I sistemisti di Etruria informazioni, cui è affidata la gestione dell’ambiente di posta su delega di Cedacri, adoperano un’utenza di amministratore che consente senza alcuna tracciabilità la visualizzazione del contenuto nelle caselle di posta elettronica dei dipendenti”.
LO STIPENDIO DI 300.000 EURO AL NUOVO DG
La relazione finale di Gatti era corredata delle controdeduzioni di tutti gli amministratori accusati. Ha portato, come detto, a sanzioni volute dal direttorio di Bankitalia il 23 settembre 2014 per tutti i manager, tra cui l’allora presidente Giuseppe Fornasari (180.000 euro), il dg Bronchi (202.500), il consigliere Boschi (144.000). Solo Alfredo Berni ha avuto sconti, perché gli sono stati riconosciuti i tentativi di fermare la deriva. Nel maggio 2014, sulla spinta della seconda ispezione, 7 membri del cda su 15 sono stati cambiati: Rosi è diventato presidente, Berni e Boschi vicepresidenti, il dg Bronchi è stato liquidato con 1,2 milioni di buonuscita. La musica però è rimasta la stessa. Si è subito costituita la “commissione informale”. E quando è stato il momento di assumere il successore di Bronchi, cioè Daniele Cabiati, il presidente Rosi ha chiesto per lui una retribuzione da 300mila euro annui, “contrariamente al quanto era indicato dal documento “Politiche di remunerazioni” approvato dall’assemblea.