Corriere della Sera, 23 dicembre 2015
A Barcellona il primo partito è Podemos, contrario alla secessione della Catalogna. Un altro tassello del puzzle spagnolo
Barcellona è all’opposizione. Il primo partito è Podemos favorevole a votare sull’indipendenza, seconda la Sinistra che la esige, terza la Destra che la pretende. In realtà, l’indipendenza è un fantasma. Non verrà mai. Ma è destinata ad avvelenare la vita pubblica. E a danneggiare il prestigio e gli interessi di questa meravigliosa capitale del Mediterraneo.
Barcellona non è solo bellissima. È anche la città al mondo che gode del maggior pregiudizio positivo. Il posto preferito per l’Erasmus. Le Olimpiadi del 1992. La leggenda dell’anarchia, con la ministra Federica Montseny che riconverte le prostitute in sarte (quando si capì che il mercimonio sarebbe finito solo con una rivoluzione dell’amore libero, il suo compagno di utopia Mariano Gallardo propose che la verginità fosse considerata «un crimine sociale», da punire o almeno da tassare). La squadra di calcio più forte di tutti i tempi con la scritta «Unicef» sulle maglie (ma punita per doping finanziario, accusata di aver pagato Neymar in nero, per poi ingaggiare Sanchez, grande centravanti però razzista e violento. Ora lo sponsor è Qatar Airways). Il mito della metropoli antifranchista. Ma «tutte le volte che ho accompagnato il Caudillo a Barcellona siamo sfilati tra due ali di folla plaudente – rivendicò prima di morire il pupillo di Franco, Manuel Fraga Iribarne —. Le ragazze gettavano fiori. I borghesi facevano a gara per invitarci nelle loro case…».
«È vero, la borghesia catalana era franchista – dice Javier Cercas, lo scrittore di “Soldati di Salamina”, nato in Estremadura ma che da sempre vive e insegna qui —. I catalani amano reinventarsi un passato. Fa parte della gigantesca regressione all’infanzia che segna la vita pubblica di oggi. Ci comportiamo come bambini. Sappiamo benissimo che l’indipendenza è impossibile: non la consente la Costituzione, sarebbe comunque bloccata dal Senato in mano ai popolari, non la vuole l’Europa, non la desidera neppure la maggioranza dei catalani; ma ci comportiamo come se fosse a portata di mano. Invece la Catalogna assomiglia ormai al resto della Spagna, nel bene e nel male. Quand’ero ragazzo, ogni estate mio padre ci portava in Estremadura e ci diceva: “Fin dove troverete i bagni puliti, è Catalogna. Al primo bagno sporco, comincia la Spagna”. Oggi i bagni sono limpidi dappertutto. Sa quale resta la differenza? La Spagna è un Paese profondamente corrotto; la Catalogna è una cleptocrazia. L’idea separatista serve da pretesto per continuare a rubare».
I nomi li faranno i magistrati e le sentenze. Certo per i catalani è stato uno choc apprendere dalle carte dell’accusa che il padre della loro piccola patria – Jordi Pujol, uomo finissimo, fluente in tutte le lingue europee – e la sua numerosa famiglia avevano milioni di euro sparsi in vari paradisi fiscali. Pujol pensava la Catalogna come ponte tra la Spagna e l’Europa, e contrattava vantaggi a Madrid. Oggi il suo erede, Artur Mas, da Madrid vuole andarsene.
Il 27 settembre scorso Mas ha vinto le elezioni locali, alleandosi con l’Erc, Esquerra (Sinistra) Republicana de Catalunya, che porta il nome di un partito estinto, fondato nel 1931, al governo negli anni della guerra civile sino all’ingresso dei franchisti. Mas non è ancora riuscito a insediarsi perché gli mancano i voti di un altro partito di estrema sinistra, la Cup, Candidatura d’Unitat Popular, che lo considera troppo moderato. Se non ce la fa entro il 10 gennaio, si torna a votare; ma alla fine dovrebbe farcela. Proprio ieri ha chiarito che la sua sarà una presidenza di transizione. A Barcellona nascerà un governo separatista, mentre a Madrid il governo non c’è.
Alle elezioni nazionali di domenica il partito di Mas è sceso da 16 a 8 seggi. Ma l’Erc li ha triplicati, da 3 a 9. Saranno tutti voti per far nascere un esecutivo di sinistra che conceda il referendum sull’indipendenza; cui però i socialisti andalusi sono contrarissimi (e un quarto dei 90 deputati socialisti sono andalusi). La Cup non si è presentata perché non riconosce il Parlamento spagnolo. Podemos è arrivato al 25%, spinto dalla popolarità della nuova sindaca Ada Colau, ex attrice, ex capo del movimento dei senzatetto, che si è insediata proclamando: «Non obbedirò alle leggi che considero ingiuste». La cosa a Iglesias è piaciuta moltissimo. I socialisti sono crollati. Rivera, contrario all’indipendenza, è andato maluccio. Lui è catalano, nato a Barceloneta, impiegato nella banca locale Caixa, ma è l’unico a parlare castigliano nel Parlamento locale, tra le risate di scherno dei colleghi. Quando Mas e gli altri appaiono sulle tv spagnole vengono sottotitolati. Il rifondatore di Erc, Josep Lluis Carod-Rovira, si vanta di aver parlato castigliano una sola volta in vita sua, per commemorare le vittime della bomba di Al Qaeda a Madrid, 11 marzo 2004.
A Barcellona le scritte sono ormai quasi tutte in catalano. In catalano le lezioni a scuola. Catalani i volumi che si trovano all’ingresso delle librerie. Il problema è che la lingua diventa dirimente pure nei concorsi pubblici, negli ospedali si assumono medici perché dicono «adeu» invece di «adios». L’effetto è un po’ provinciale, considerato che Barcellona è stata un crocevia della storia del Novecento: l’Omaggio alla Catalogna di Orwell e i grandi classici della guerra civile scritti da stranieri, Malraux, Hemingway, Bernanos, Koestler, Gibson; la drammatica guerra nella guerra tra anarchici e stalinisti comandati da Togliatti; Dolores Ibarruri che saluta le brigate internazionali in partenza dopo la sconfitta: «Un giorno ritornerete, e troverete una patria». E Mussolini che festeggia la presa della città: «Dicevano: no pasaran. Siamo passati! E vi dico che passeremo». Il fascismo per fortuna è passato, e non nel senso che intendeva il Duce; in questi giorni Ada Colau sta facendo togliere le ultime targhe dedicate ai generali franchisti.
La città è sempre dinamica, la Sagrada Familia finalmente terminata è invasa di luce, il quartiere marinaro della Ribera è rinato, nel centro di ricerca Irsicaixa si sperimenta il vaccino per l’Aids. Il Barcellona ha appena vinto il terzo Mondiale per club, pure la nuova Miss Mondo è catalana: la modella Mireia Lalaguna, che però ha vinto il titolo per la Spagna e ne indossava la detestata bandiera. La questione dell’indipendenza è entrata in stallo. S’incancrenisce. Mostra il volto chiuso, quasi arcigno di una Catalogna non più disposta ad aiutare la Spagna povera. E ha già fatto danni all’economia: l’anno scorso 500 aziende hanno traslocato. Per far dispetto a Madrid è stata pure abolita la corrida. «Ma senza corrida i tori da combattimento sarebbero estinti da tempo – sostiene Cercas —. Lo dico da figlio di veterinario: tra le migliaia di animali che purtroppo uccidiamo ogni giorno, il toro ha il destino invidiabile di morire combattendo. O di vincere, come Isleño, che abbatté Manolete e divenne un eroe. Le élites catalane non vogliono la corrida perché la considerano una cosa spagnola; ma l’arena più antica è qui, a Olot. La prova che noi spagnoli ci assomigliamo più di quel che vorremmo».