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 2015  dicembre 23 Mercoledì calendario

Il caso della lettera di Bruxelles sulle banche italiane

Alla fine il governo sembra orientato verso lo strappo: a meno di nuovi cambi di rotta, renderà nota la lettera di Bruxelles. E poco importa che quel documento non fosse mai stato scritto dalla Commissione europea per questo. Non doveva essere pubblicato. Non avrebbe mai dovuto diventare oggetto di uno scontro politico alla luce del sole, almeno nelle intenzioni dei firmatari. Era solo l’atto finale di una sorda contesa sotterranea, durato già troppe settimane, fra amministrazioni lontane duemila chilometri l’una dall’altra.
La data è giovedì 19 novembre. A quel punto del mese scorso mancano poche ore al decreto del governo che avrebbe «risolto» – dicono i tecnici – Banca Etruria, Banca Marche, e le casse di risparmio di Chieti e di Ferrara. Dopo un lungo dissesto giunto ormai alla fase terminale, la vita giuridica dei quattro istituti stava per finire. Le parti sane delle quattro aziende avrebbero proseguito la strada come nuove «banche-ponte», ricapitalizzate per 1,8 miliardi da parte del resto delle banche italiane attraverso il nuovo «Fondo di risoluzione» previsto dalle direttive europee. Le parti malate venivano invece separate, addossando loro crediti in default svalutati ad appena il 17,6% del valore teorico. Per coprire le perdite di questo disastro di malagestione e clientelismo sarebbero serviti 1,7 miliardi, sempre forniti dal resto del settore del credito attraverso il Fondo di risoluzione. In più, secondo le regole di questo meccanismo europeo, ci sarebbe stato l’azzeramento di tutte le azioni e di tutte le obbligazioni subordinate delle banche «risolte».
Questo pacchetto, giovedì 19 novembre, era pronto. Prima di approvarlo però il governo italiano presenta un’ultima richiesta alla Commissione: deve andare oltre i suoi soliti segnali informali di dissenso; deve mettere nero su bianco tutte le sue obiezioni alla precedente soluzione prospettata da Roma e assumersene la responsabilità.
Fino a poche settimane prima il governo aveva pensato di far fronte ai dissesti senza ricorrere al Fondo di risoluzione di modello europeo, che implicava il colpo di forbice sul risparmio. Voleva invece varare un decreto per usare il Fondo interbancario di garanzia sui depositi. Quest’ultimo strumento è alimentato con 2,2 miliardi sempre dai contributi di 208 banche italiane, serve come garanzia dei conti correnti e – secondo il governo – poteva essere usato per Etruria, Ferrara, Chieti e Banca Marche evitando a Bruxelles la contestazione di un aiuto di Stato. Si trattava infatti di risorse private. La speranza era che dunque non sarebbe stato necessario colpire i risparmiatori, cancellando le loro obbligazioni (peraltro già svalutatissime sul mercato).
Margrethe Vestager e Jonathan Hill, commissari Ue alla Concorrenza e alla Stabilità finanziaria, non sono d’accordo. Ritengono che un atto di legge che obblighi il Fondo interbancario di garanzia a versare risorse nelle quattro banche produrrebbe comunque un aiuto di Stato: c’è intervento pubblico – pensano – perché lo Stato di fatto espropria risorse private e le dirige dove vuole. Nella lettera che accettano di inviare a Roma il 19 novembre i due commissari scrivono: «Nel caso venga usato un meccanismo di garanzia dei depositi e questo meccanismo venga riconosciuto come aiuto di Stato, la risoluzione delle banche scatta autonomamente in base alla direttiva Brrd (sulla ristrutturazione degli istituti, ndr)». In sostanza, c’è aiuto di Stato in ogni caso e vanno colpiti gli azionisti e gli obbligazionisti subordinati anche se le risorse usate sono di origine privata.
Hill e Vestager dosano ogni parola, perché sanno che il rischio di ricorsi legali contro di loro è sempre presente. Nella lettera osservano che esiste una giurisprudenza della Corte di giustizia europea a sostegno della loro posizione. Quindi il governo si riunisce tre giorni dopo per varare l’operazione nel solo modo che resta: il ricorso al nuovo Fondo di risoluzione di modello europeo – sempre alimentato dalla banche italiane – con il sacrificio di parte dei piccoli investitori. Se l’Italia avesse aspettato fino al 2016, con la piena entrata in vigore della Brrd, avrebbe dovuto colpire anche le obbligazioni più normali e i conti correnti sopra i 100 mila euro di almeno una delle quattro banche. Se avesse ignorato la posizione di Bruxelles e ricapitalizzato le aziende salvando il risparmio, l’effetto sarebbe stato nullo perché i nuovi fondi avrebbero dovuto essere accantonati.
Resta però quella lettera riservata di Hill e Vestager, che taglia la strada alla soluzione meno traumatica. Nel governo la tentazione di pubblicarla è così forte che, a ieri sera, c’era la decisione di metterla oggi stesso sul sito del ministero dell’Economia. Con tanto di controdeduzioni che contestano la lettura di Bruxelles sulla giurisprudenza della Corte Ue. Non è ancora certo che alla fine andrà così. Infrangere la riservatezza del carteggio può senz’altro aiutare Matteo Renzi nelle polemiche sulle banche che divampano in Italia in queste ore. Ma a quel punto neanche il premier sa quanto dovrà aspettare, prima che altri dall’Europa abbiano voglia di scrivere di nuovo a lui.