il Giornale, 22 dicembre 2015
«Chi vince le elezioni ormai lo decide il caso». Parola di Luca Ricolfi
Luca Ricolfi, sociologo, insegna Psicometria all’Università di Torino. Responsabile scientifico dell’Osservatorio del Nord Ovest, fra i suoi libri ci limitiamo a segnalare «Perché siamo antipatici», «Il sacco del Nord», «La Repubblica delle tessere», «L’enigma della crescita». Studioso attento quanto disincantato della politica, le sue analisi si basano sempre sui dati empirici (sondaggi di opinione, indicatori economici e finanziari) e mai su pregiudiziali ideologiche. Lo abbiamo intervistato partendo dai risultati delle ultime elezioni spagnole per poi allargare il discorso alla situazione italiana, senza tralasciare una puntatina in Europa. Ecco che cosa ci ha risposto.
Le ultimi elezioni spagnole sembrano aver decretato in loco la fine del bipartitismo. Nelle regionali francesi, il doppio turno ha visto invece una «union sacrée» contro il partito che era uscito vittorioso dal primo. Quali insegnamenti se ne possono trarre?
«Che la storia conta, quella spagnola è una democrazia più giovane e meno ingessata di quella francese, in Spagna nessuna alleanza è delegittimata a priori».
In Italia il governo Renzi sta a sua volta cercando di varare una nuova legge elettorale. Al di là dei tecnicismi, il succo sembra essere il cospicuo premio di maggioranza a chi arriva primo. C’è però il problema del forte astensionismo elettorale. Secondo lei come se ne esce?
«Per me il problema non è solo l’astensionismo, ma il rischio che il vincitore sia frutto del caso. Anche andassimo tutti a votare, resterebbe il problema che con tre forze politiche che hanno tutte e tre circa il 30% dei consensi, alla fine quel che conta veramente, quel che può fare la differenza, non è chi arriva primo ma chi arriva secondo. Supponga che Renzi prenda il 34% (l’invalicabile quota Veltroni-Berlinguer) e che Grillo e il centrodestra più o meno unificato prendano ciascuno circa il 30% dei voti. Le sembra intelligente un sistema che manda a casa Renzi se Grillo prende 1 voto di più del centrodestra, e mantiene Renzi in sella se Grillo prende 1 voto meno del centrodestra? Le sembra democratico? Eppure è questo che rivelano i sondaggi, ed è questo che, senza alcun sondaggio in mano, mi ero permesso di ipotizzare io stesso un bel po’ di tempo fa, in un pezzo intitolato Fare i conti con Pluto. Non so se sia vero che la Boschi abbia twittato che le elezioni spagnole avrebbero mostrato la giustezza e l’utilità dell’Italicum, ma se è vero siamo messi male, a quanto pare ai nostri governanti interessa solo che ci sia un vincitore chiaro, non che il vincitore rappresenti la maggioranza dei cittadini... Va a finire che avevano ragione Scalfari e tutti gli altri che ci mettevano in guardia contro i rischi per la democrazia, e avevano torto quanti (me compreso) si rallegravano del decisionismo del nuovo governo».
Siamo un Paese che sembra essere diviso anche dall’anagrafe. Quello che il premier Renzi vorrebbe «non è un Paese per vecchi». Ma il giovanilismo può essere una categoria della politica?
«No, non può esserlo (anche se talora lo è stato un po’, ad esempio nel ’68) però quello di puntare sui giovani mi sembra uno dei pochi calcoli politici errati di Renzi. La demografia gioca contro il giovanilismo, siamo uno dei paesi più vecchi del mondo, e lo saremo sempre di più...».
Il deficit di credibilità della nostra classe politica, da dove deriva secondo lei?
«Fine delle ideologie, cursus honorum poco selettivo, pochezza culturale, corruzione diffusa. Come si potrebbe rimediare? Esistono anche i problemi irrisolvibili, è una cosa che si insegna in tutti i corsi di matematica, non capisco perché ce ne dimentichiamo appena parliamo della realtà».
Destra, sinistra. Sono in molti, tanti, a dire che si tratta di criteri superati. Che però continuano ad essere usati. Per stanchezza, per comodità o perché in realtà sono ancora gli unici praticabili?
«No, non sono gli unici. Oggi fra destra e sinistra, almeno in Italia, ci sono solo sfumature, almeno se abbiamo il coraggio di andare alla sostanza delle cose, ossia alla politica economica. Il conflitto principale è fra vecchi partiti più o meno indissolubilmente legati all’establishment di Bruxelles, e forze politiche, vecchie e nuove, che non credono nel sogno europeo e sono indotte a rivalutare gli Stati nazionali».
Si dice che ci sia un Paese reale e un Paese legale, una società civile e una società politica. Sono davvero due cose distinte, o ogni Paese ha la classe dirigente che si merita?
«La seconda che ha detto. Del resto, è quel che diceva Norberto Bobbio, che ha sempre avuto la mente lucida».
Il populismo è una parolaccia, un pericolo o una risorsa?
«Il populismo è anche un pericolo, come tante altre cose. Anche il parlamentarismo è pericoloso. Anche la partitocrazia lo è. Persino la democrazia può avere i suoi pericoli. Ma nessuna di queste cose è un male in sé, e tantomeno è il male assoluto: quel che trasforma una possibilità in un pericolo sono gli eccessi. Peron è stato un eccesso, ma anche la partitocrazia della Prima Repubblica è stata un eccesso, e molto si potrebbe dire sugli eccessi della democrazia in cui viviamo».
Grosso modo ogni vent’anni, ha scritto Michele Ainis nel suo nuovo libro «L’umor nero», ridisegniamo in Italia l’architettura delle nostre funzioni. La sensazione però è che la forma non si adatti mai alla sostanza delle cose e che non si incida mai sulla realtà. È una sensazione giusta?
«È il Gattopardo, l’eterno Gattopardo che è in noi».
In Italia c’è una vera e propria sbronza dei diritti. Da dove deriva? A cosa può portare?
«C’è in tutto il mondo sviluppato, non solo in Italia. L’anomalia italiana è che la sbronza dei diritti non è minimamente bilanciata dai loro anticorpi, che sono la cultura dei doveri, il senso civico, il rispetto delle regole, la reciprocità».
Le faccio ora una sola domanda sull’Europa dove la mania legislatrice sembra accompagnarsi a un deficit democratico. È un caso, un errore di percorso, una volontà? Si possono correggere l’una e l’altro?
«Mi sembra, prima di tutto, il risultato della modestia degli uomini (e delle donne!) che guidano l’Europa, una modestia che appare evidente da qualsiasi confronto con i predecessori. Ma non dobbiamo prendercela troppo con la politica: lo stesso succede in campo artistico, in campo intellettuale, nella cultura in genere. I grandi non ci sono più, il confronto con gli uomini e le donne del passato è imbarazzante. Quanto alla correggibilità degli errori europei sono scettico: solo i grandi sono capaci di autocorreggersi».
Ma lei aveva mai pensato che si sarebbe arrivati a rimpiangere la Prima Repubblica?
«No, non l’avevo mai pensato, ed è uno dei tanti errori di valutazione che mi è capitato di fare».