la Repubblica, 22 dicembre 2015
L’ultimo lungo giro di pista di Kobe Bryant
Come un Frank Sinatra o un Elton John, il bimbo che cresceva tra Pistoia, Reggio Calabria e Reggio Emilia per poi prendersi la Nba da uomo si sta regalando un ultimo giro di pista. Lungo però una stagione, e pazienza se la band di supporto, gli scassati Los Angeles Lakers di queste epoche, sommino mollezze e cacofonie. Kobe Bryant trascende risultati (pessimi) e critiche (parecchie) accumulate in passato per i suoi egoismi. Ovunque vada è un tutto esaurito, una ovazione, una randellata. E lui se la gode, immemore del grugno messo su a ogni sconfitta nei suoi precedenti 19 anni di carriera.
«Il tour d’addio è una cosa speciale – racconta al telefono da New York – bellissima. Vedere il rispetto dei tifosi, ringraziarli e ricevere il loro grazie, beh, non lo avrei mai immaginato. E non vedo l’ora di tornare a Boston un ultima volta, il 30 dicembre. Lì dove c’è un sacco di storia, lì dove ho giocato due finali e da ragazzo, da fan, ne ho sognate tante altre. Sarà speciale».
Cinque titoli e altre due finali, una volta mvp della Lega, due delle Finals, 17 All-Star Game, terzo marcatore di sempre oltre a due ori olimpici. Accanto al figlio di Jellybean gira per i parquet d’America il suo palmares, lo spirito competitivo di cui sa ancora regalare pallidi bagliori, le movenze e la mentalità jordanesche. «Ma non ho ancora pensato al mio posto nella storia – si schermisce – quanto all’eredità che lascio a chi viene dopo di me, a quanti nuovi giocatori ho influenzato in vent’anni, insegnando su tutto che ti devi preparare e devi puntare a vincere un titolo, che devi rimanere a quel livello, e tutto il resto è un fallimento. I miei avversari più duri? San Antonio Spurs, Sacramento Kings, i Celtics, i Detroi Pistons del 2004, i Chicago Bulls all’inizio. Fatico a nominare cinque giocatori: Hakeem Olajuwon, Jordan, Durant, LeBron, Drexler, ma di campioni ne ho visti tanti. E non ci sarà un nuovo Kobe, così come un nuovo Magic o un Bird. Siamo tutti atleti e persone diverse. Adesso vedo tanto giovane talento soprattutto tra i playmaker, magari qualcuno arriverà e dominerà i prossimi dieci anni».
Il futuro, oltre l’addio in calendario il 13 aprile allo Staples Center contro gli Utah Jazz, è una parete bianca. Niente Europa o Cina, lo ribadisce. «Mi piacerebbe ma il mio corpo non me lo permette». Magari un paio di giri supplementari. «Un All-Star Game onorario? Per me non essere votato sarebbe dura ma accetterò qualsiasi ruolo. Ed essendo cresciuto in Italia mi piacerebbe finire con una competizione internazionale come l’Olimpiade di Rio». E poi? «Mi mancherà la pressione, le attenzioni, l’allenamento. Non avrò più quei momenti, ci vorrà un periodo di aggiustamento».
Per questo si gode un ultimo adesso, come quella schiacciata contro Houston dopo i tanti calvari fisici. «Ne ho passate tante, mi mancavano gambe e timing, il ritmo. È bellissimo tornare a fare certe cose. E non credo che i miei infortuni siano stati una punizione divina: ho un buon rapporto con gli dei, ci capiamo bene».