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 2015  dicembre 22 Martedì calendario

Le purghe staliniane e il Pci

La sua risposta sulle purghe staliniane e la scomparsa di Armando Cossutta mi sollecitano a porle due quesiti: 1) perché, nel parlare delle purghe staliniane ai partiti fratelli e del processo Slanskij, lei non cita il libro che Arthur London (unico rimasto in vita dei tredici) scrisse, descrivendo l’intera vicenda e in particolare i metodi di tortura la cui lettura, per me, militante comunista e «rivoluzionario di professione», rappresentò la scoperta di una sconcertante verità? 2) Quanto era diffusa, secondo lei, fra i dirigenti del Pci, la conoscenza di queste vicende (non note, a parer mio, alla stragrande maggioranza dei militanti) e per quale ragione, la «destra del Pci» (vedi Cossutta e, principalmente, Amendola) si dimostrò più filosovietica della sinistra? 
Uliano Ragionieri

Caro Ragionieri, 
Nella storia delle ultime purghe staliniane anche il caso di Arthur London meriterebbe un capitolo. Quando fu arrestato, nel 1951, era viceministro degli Esteri e aveva l’impeccabile curriculum di un apparatcik devoto e inflessibile. Fu torturato, come tutti i suoi compagni di sventura, ma sfuggì alla pena capitale perché accettò di confessare le colpe di cui era stato accusato. In altre parole la sua «confessione» fu l’elemento di cui gli inquirenti avevano bisogno per dare una parvenza di credibilità a un processo in cui tutti i capi d’accusa erano inventati di sana pianta. Ma il suo libro autobiografico, pubblicato a Parigi nel 1969, suscitò grande attenzione e divenne un film franco-italiano diretto da Costa Gavras («La confessione») in cui London era impersonato da Yves Montand e la moglie da Simone Signoret. Diffusi dopo i moti studenteschi del 1968 e la primavera di Praga, il libro e il film ebbero l’effetto di provocare una forte reazione antisovietica anche in ambienti in cui l’Urss, nonostante tutto, era stata considerata fattore e modello di progresso. Comincia in quegli anni il fenomeno dei «nouveaux philosophes»: intellettuali di sinistra che non avevano per il comunismo e l’Unione Sovietica il timore reverenziale della generazione precedente. 
Alla sua seconda domanda, caro Ragionieri, rispondo che la dirigenza del Pci e, probabilmente, gli stessi quadri intermedi, non potevano ignorare, soprattutto dopo il rapporto Krusciov al XX Congresso del partito, quali fossero le responsabilità del regime. Non conosco le motivazioni individuali del loro silenzio, ma credo che molti si consolassero dicendo a se stessi, come Mao, che la rivoluzione non è una cena di gala. Altri invece si ostinarono a credere che nelle accuse contro l’Urss vi fosse lo zampino della Cia. E altri infine pensarono, non senza ragione, che un pubblico dibattito sulle colpe del partito comunista sovietico avrebbe avuto effetti disastrosi per l’unità del Partito comunista italiano. Quando decise di prendere le distanze dall’Urss, Enrico Berlinguer ne denunciò gli anacronismi ideologici, ma evitò prudentemente qualsiasi processo al passato.