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 2015  dicembre 22 Martedì calendario

Se dietro la Rivoluzione francese c’era Jean-Jacques Rousseau

Non c’era nessun contadino, artigiano o bracciante in quel Terzo Stato che nel 1789 diede il «la» alla Rivoluzione francese. Strano. Jonathan Israel, in La Rivoluzione francese (che, a inizio 2016, sarà dato alle stampe da Einaudi), si sofferma poi su un ulteriore dettaglio, ancora più sorprendente: il Terzo Stato non includeva praticamente nessun uomo d’affari, banchiere, imprenditore, né persone che esercitassero una delle occupazioni della borghesia medio alta. Lo aveva già notato Edmund Burke che seguiva gli avvenimenti della Rivoluzione da Londra: a sconcertarlo era stata l’assenza tra i rivoluzionari di uomini ricchi, di grandi proprietari terrieri e di alti dignitari della Chiesa. E non perché fossero dei diseredati. Burke notò l’alta percentuale di avvocati presenti nell’Assemblea, ma, «come la maggior parte degli storici moderni», non si rese conto della pressoché totale mancanza di professionisti «nelle più importanti cerchie di oratori, pam-phlettisti e riformatori». Il fatto è che «in materia di provenienza sociale, la leadership rivoluzionaria non rappresentava nessuna categoria sociale definita». Era composta in prevalenza da giornalisti, scrittori, precettori, librai, preti e nobili ribelli che si erano dati alla letteratura. Altro che philosophes. In concomitanza con l’inizio degli Stati generali, nell’aprile 1789, fu pubblicato un pamphlet satirico che si faceva beffe di quel «mucchio di giornalisti arroganti», di quei «presuntuosi arrampicatori sociali» che si presentavano come «geni eccezionali» e in un battibaleno avrebbero preso in mano le redini della Francia. Questo libercolo di nessun valore, scrive Israel, «si sarebbe dimostrato molto più accuratamente profetico di quanto il suo autore avrebbe potuto immaginare». Se alcuni intellettuali si emozionarono per gli eventi di Parigi, furono quelli non francesi. 
Ma torniamo a Parigi. I brindisi alla Rivoluzione francese il 18 novembre del 1792 (oltre tre anni dopo la presa della Bastiglia) furono sedici. Coloro che levarono il calice erano più di cento inglesi, americani e irlandesi che abitavano nella capitale e si erano dati appuntamento all’hotel White’s (ribattezzato all’epoca British Club) per polemizzare platealmente con i loro Paesi, che invece erano sempre più critici nei confronti della piega presa dagli accadimenti di Francia. Tra quelli che brindarono, il poeta americano 
Joel Barlow, l’autrice di Letters from France, Helen Maria Williams, il presidente del club John Hurford Stone, il celeberrimo autore del libro
I diritti dell’uomo, Tom Paine. Paine tra l’altro, ancorché straniero, era stato eletto alla Convenzione del 1792. Israel nota come «sebbene l’opinione degli inglesi – incoraggiata dal governo di Londra e da quasi tutto il clero – fosse in generale profondamente ostile alla Rivoluzione, gran parte dell’élite intellettuale e letteraria d’Inghilterra, Stati Uniti e Irlanda era invece entusiasta, per non dire rapita dalle sue conquiste e decisa a schierarsi al suo fianco». Poi, però, quando nel 1793 si impose Maximilien Robespierre, prontamente tutti loro videro in lui e in ciò che rappresentava «non il culmine, ma il crollo e la rovina della Rivoluzione». Helen Maria Williams, durante i dieci mesi del Terrore (settembre 1793- luglio 1794), finì anche in prigione e la sua amica francese Olympe de Gouges sul patibolo. Israel riprende e porta a compimento un discorso che aveva già iniziato in un suo libro precedente, Una rivoluzione della mente (Einaudi), nel quale aveva analizzato i «due fiumi» dell’Illuminismo: quello di Locke e Newton, «riformista», deista e incline al compromesso con le confessioni cristiane, e quello di Spinoza, «radicale», materialista, ateo e democratico. Adesso l’autore nota che «i filosofi e gli illuministi che presero parte agli Stati generali del 1789 erano pochissimi»: Condorcet, che sarebbe stato uno dei più importanti «architetti della Rivoluzione», non riuscì a farsi eleggere deputato e Sieyès ci riuscì solo per un soffio. L’astronomo dell’Accademia reale delle scienze Jean-Sylvain Bailly invece venne eletto, ma, come spiegò lui stesso, fu un’eccezione, tenuto conto della «grande disapprovazione dell’assemblea elettorale nei confronti degli uomini di lettere e degli académiciens». Talché si può dire che solo dieci dei milleduecento deputati degli Stati generali del 1789 possono essere considerati, al pari di Mirabeau e Sieyès, philosophes illuministi. E non furono certo quei dieci a muovere la rifondazione umana mirabilmente descritta in Rivoluzionari. Antropologia politica della Rivoluzione francese, un libro di Haim Burstin che sarà a breve pubblicato da Laterza. 
L’ex gesuita lussemburghese François-Xavier de Feller fu il primo a descrivere l’azione dei philosophes come frutto di «un potente piano architettato negli anni Quaranta del Settecento da un gruppo di scrittori eccezionali che riuscì – ideando, con sapienza e sarcasmo, un linguaggio e un modo di pensare del tutto nuovi – a fare buona impressione su parti della società di ogni classe sociale». Grazie a «un’astuta abilità e a un oscuro utilizzo delle parole», il gruppo sarebbe riuscito a far passare per «sublimi» delle idee «rovinose». A ordire la cospirazione sarebbe stato, ovviamente, Diderot, che fece dell’ Encyclopédie una «fucina di eversione e di empietà». Lui, D’Alembert e i loro seguaci erano, secondo Feller, atei «parassiti» che «oziavano nei caffè», impegnati a «fare allusioni», a «vantarsi e a beffarsi del modo in cui avevano imposto la loro presenza nei salotti e nelle accademie», finendo per conquistare «posizioni di grande potere». Feller suggeriva anche che una delle loro armi migliori fosse «l’attrazione che esercitavano sulle donne, specialmente sulle donne giovani, dall’aspetto grazioso, sensibili alle belle parole, ai giri di frase eleganti, alle battute e alle più o meno sottili allusioni erotiche». 
  
Il primo a porsi domande sulla reale influenza dei philosophes era stato un discepolo di Voltaire, Jean-François de La Harpe, sostenitore della Rivoluzione fino al 1793, il quale già a fine Settecento notò come l’autore del Trattato sulla tolleranza avesse avuto un ruolo assai marginale nel retroterra filosofico dei rivoluzionari; e fosse tenuto in considerazione soprattutto per le sue «ineguagliabili abilità letterarie e per il ridicolo di cui colpiva senza posa i vecchi pregiudizi costituiti». Per il resto era considerato «un amico del re e degli aristocratici» e qualcuno, come il leader dei girondini Jacques Pierre Brissot, lo giudicò addirittura un «nemico del popolo». 
Per non parlare dell’aperta ostilità di Robespierre nei confronti del «partito dei filosofi» o meglio della «setta», come la definì il dittatore, al cui cosmopolitismo opponeva quasi una sorta di xenofobia che lo indusse a stroncare l’ateismo «in quanto non patriottico e contrario alla virtù e alla normalità». «Si tratta», scrive Israel, «di una tensione a cui bisogna che gli storici diano più peso di quanto abbiano fatto finora». Quasi esplicita a questo punto è la polemica contro François Furet e il suo celeberrimo libro Critica della Rivoluzione francese (Laterza). C’è stato un collegamento fra il Terrore e i princìpi rivoluzionari del 1789? Il Terrore fu, in qualche modo, un «prodotto della philosophie»? È quel che hanno sempre sostenuto monarchici, cattolici e rivoluzionari disillusi, «tutti ansiosi di mettere in relazione il philosophisme, il repubblicanesimo, il materialismo e l’ateismo con la perversione morale», secondo Israel. Il quale poi afferma in modo categorico che «lo studio meticoloso delle fonti suggerisce che i sostenitori di queste tesi avevano torto». 
Si dimentica troppo spesso che i filosofi, che possono dirsi responsabili per la stagione che va dal 1789 al 1793, «furono brutalmente mandati alla ghigliottina da Robespierre» e i sopravvissuti «negarono ostinatamente che la Rivoluzione si fosse autoimmolata, spiegando che le idee di Robespierre e dei suoi alleati furono il risultato di un’ideologia del tutto diversa e contraria». Quelle idee erano, semmai, riconducibili a Jean-Jacques Rousseau: «L’ideologia e la cultura giacobina sotto Robespierre erano ispirate a un ossessivo puritanesimo morale rousseauista intriso di autoritarismo, anti intellettualismo, xenofobia». Ragione per cui, scrive Israel, «nello stesso modo in cui le letture marxiste della Rivoluzione come risultato della lotta di classe appaiono oggi infondate, bisogna rifiutare nel suo complesso la tesi di Furet, ampiamente rispettata, che attribuisce alle origini e ai principi di base della Rivoluzione connaturate inclinazioni totalitarie e un latente pensiero illiberale». 
   
Parole ancor più dure sono quelle pronunciate da Israel contro un altro mito «sconcertante» ancorché «largamente condiviso» e tuttavia «del tutto infondato»: «Fra i più astrusi preconcetti che affliggono le interpretazioni della Rivoluzione francese», scrive, «figura la convinzione, tuttora predominante che la frattura tra Rivoluzione e Cristianità – in special modo la Chiesa cattolica – non fu essenziale, ma contingente e spiegabile solo facendo ricorso a vicissitudini successive alla Rivoluzione stessa». In realtà «tutte le prove dimostrano il contrario»: l’impulso rivoluzionario («e non violento») alla scristianizzazione fu «fondamentale nella visione della leadership philosophique che fece la Rivoluzione, prima e durante il 1789». Fu invece Robespierre che, «pur incline in modo discontinuo a concezioni anticlericali, avversò la scristianizzazione fin dall’inizio». Quale fedele discepolo di Rousseau, riteneva che la religione costituisse il basamento del contratto sociale e andasse «con ogni riguardo tutelata». Anche Danton mostrava poco entusiasmo nei confronti della persecuzione del clero o della Chiesa. E questo conferma che «la dittatura giacobina, consolidata nell’estate del 1793, si reggeva su una ristretta e instabile coalizione formata da gruppi sorprendentemente disparati». Ragione per cui si può affermare che «alcune speculazioni generali e di primaria importanza sulla Rivoluzione francese, ribadite spesso e in ogni sede e da tempo accolte sia dai filosofi che dagli storici, si rivelano fondamentalmente scorrette, consegnandoci il dovere straordinariamente urgente di un riesame approfondito e rigoroso». 
A oltre due secoli dalla morte, l’Incorruttibile non divide più la memoria francese. Di lui è rimasto un mito tutto sommato positivo. A eccezione della città di Parigi, che il 30 settembre 2009 ha votato contro, sia pure per pochi voti, la proposta di dedicargli una strada o una piazza. Ma i sobborghi operai della capitale non si sono fatti di questi scrupoli. Così come il resto del Paese. Nel libro Robespierre. Una vita rivoluzionaria (il Saggiatore) Peter McPhee fa notare come in Francia oggi ci siano più di 50 strade, scuole, edifici e ditte a lui intitolate: tra queste un pizzeria, una lavanderia a secco e una farmacia. Esiste persino una ditta di biancheria da letto «Robespierre Europe», che produce un «rivoluzionario» completo di lenzuola decorate a motivi erotici. Ciò dipende, secondo Israel, dalla «singolare propensione degli storici moderni a concepire quello svolto da Robespierre come un ruolo di buone intenzioni, relativamente positivo e benevolo, quantomeno prima del giugno 1793». 
I l curioso persistere dell’idea secondo cui Robespierre e il Terrore «segnarono l’epilogo naturale della Rivoluzione» determina «una concezione che distorce completamente la nostra comprensione storica e filosofica del significato della Rivoluzione». Questa tendenza a fondere assieme Robespierre e l’Illuminismo democratico è una forma di persistenza delle idee complottiste che si manifestarono fin dalla fine del Settecento. Il fatto che «il pensiero radicale avesse causato e dato forma alla Rivoluzione sembrò a moltissimi essere un’inconfutabile prova che l’Illuminismo fosse l’originaria matrice della tirannide robespierrista». L’uso improprio e l’indebita appropriazione del concetto che fosse stato l’Illuminismo a «plasmare» la Rivoluzione nei suoi effetti più deleteri aiutò a spalancare le porte alla reazione realista, aristocratica, ecclesiastica degli inizi del XIX secolo. 
Meglio, per comprendere la storia del baratro che divide l’Illuminismo dal Terrore, tornare al più importante tra gli intellettuali che avevamo lasciato a quel lontano brindisi del 1792: l’americano Thomas Paine, grande amico di Condorcet. Lo ritroviamo nel dicembre del 1793, depresso, che «cerca consolazione nell’alcol e in Spinoza». Gli è vicino un altro scrittore di oltre Oceano, Joel Barlow. Il 25 dicembre la Convenzione decreta che nessuno straniero può rappresentare il popolo francese nell’assemblea legislativa. È un provvedimento contro gli unici due deputati non francesi: il prussiano Jean-Baptiste Cloots, che verrà presto catturato per essere poi mandato alla ghigliottina il 24 marzo del 1794, e Paine. La polizia fa irruzione all’Hotel de Philadelphie, dove Paine abita, ma lui riesce a passare di nascosto a Barlow le carte su cui ha scritto L’età della ragione, libro con il quale pagherà il suo grande debito a Spinoza e alle idee illuministe. Una ventina di intellettuali americani firmano un appello perché sia rimesso in libertà. Inutilmente. La sua fortuna sarà quella di evitare di subire la sorte di Cloots. O meglio di non essere costretto a salire sul patibolo prima di Robespierre. Quando sarà liberato, riprenderà il suo posto nella Convenzione e si batterà per far comprendere le differenze tra Illuminismo spinoziano e Terrore. Ma, protesta Israel, non abbastanza a lungo (vivrà fino al 1809) perché le sue idee riescano a trovare uno spazio adeguato nei manuali di storia.