Corriere della Sera, 22 dicembre 2015
La grandezza delle Piccole Medie Imprese. Rappresentano il 72 per cento del Pil e nei prossimi due anni daranno 160mila posti di lavoro
Centosessantamila posti di lavoro nei prossimi due anni. Lanciata così, potrebbe sembrare la classica goccia d’acqua nell’oceano. In realtà, è la previsione contenuta in uno studio del Centro ricerche su sostenibilità e valore dell’università Bocconi, realizzato con la Fondazione Cologni dei Mestieri d’arte e Vacheron Constantin. Alessandra Ricci e Matteo Vizzaccaro, autori della ricerca – in anteprima per il «Corriere»: a primavera sarà pubblicata da Marsilio col titolo, Costruttori di valore – indagando su 120 imprese artigiane di eccellenza e chiedendosi se il modello di business basato sulla qualità del prodotto sia quello vincente, hanno notato come il 72 per cento del Pil nazionale derivi proprio dalle piccole e medie imprese. «Parliamo, appunto, di aziende medio-piccole, dove l’86 per cento comprende al massimo dieci dipendenti e con una struttura monocratica al vertice: il 54% delle imprese artigiane è formata, infatti, da una sola persona», ricorda Vizzaccaro.
Ma il bello è proprio nel piccolo. E nella trasmissione generazionale dell’azienda, di padre in figlio, fino ai nipoti, e oltre. «Dal punto di vista della mia esperienza di imprenditore, come costruttore di brand, due sono i punti di eccellenza delle aziende familiari: la visione a lungo termine degli obiettivi prefissati e la condivisione tra i componenti dell’impresa», osserva Maurizio di Robilant, presidente della fondazione «Italia Patria della Bellezza», partner dell’iniziativa del Corriere della Sera, «Il bello dell’Italia» (www.corriere.it/bello-italia). «Di sicuro, però, occorre anche una percezione del valore generativo per le imprese familiari, oltre ad un forte rapporto con il territorio», aggiunge di Robilant. «La bellezza delle aziende familiari è nei numeri: il 70 per cento delle imprese italiane hanno questo tipo di conduzione», sottolinea Guido Corbetta, professore ordinario di Strategia aziendale e titolare della cattedra Aidaf-Ey di Strategia delle aziende familiari. Corbetta, insieme ad Alessandro Minchilli e Fabio Quarato, ha appena terminato uno screening, nel settimo osservatorio Aidaf-Unicredit-Bocconi sulle aziende familiari italiane, su poco meno di 16 mila imprese con un fatturato superiore ai 22 milioni di euro.
Un tesoro in piccolo formato
Qui non si parla più di botteghe storiche o atelier, per i quali invece varrebbe la pena dare un’occhiata alla recente pubblicazione di «Italia su misura», a cura della Fondazione Cologni e dell’Osservatorio dei mestieri d’arte con il sostegno, anche in questo caso, della maison Vacheron Constantin. All’interno di più di 400 pagine, stampate da Gruppo Editoriale, conosciamo cento tra i migliori artigiani del saper fare italiano: dalla ceramica alla gioielleria e ai tessuti; dagli argenti alla sartoria e agli accessori; dagli strumenti musicali ai presepi; dal vetro al mosaico e al ferro battuto. Inoltre sul sito www.italia-sumisura.it è possibile allargare il campo ad altri trecento esempi di botteghe storiche selezionate, accompagnate, sia nel libro che sul sito, dalle immagini fotografiche di Dario Garofalo. Perché la bellezza va conosciuta fin nei minimi particolari. Magari scoprendo che, da nord a sud dell’Italia, esistono i distretti delle produzioni di eccellenza. Pensiamo, per esempio, alla «musica fatta a mano». E se in Lombardia, a Cremona, è la liuteria a farla da padrone, scendendo giù, fino alle Marche, il primato per gli strumenti artigianali delle sette note va ad un’area di una manciata di chilometri racchiusa tra le città di Recanati e Castelfidardo, dove prendono forma, da sempre, le celebri fisarmoniche.
Il bello, poi, non ha prezzo. Restando sul report «Costruttori di valore», il 61 per cento degli artigiani intervistati risponde che il prezzo dei loro beni rispetto alle normali produzioni di mercato è decisamente superiore. «Ma questo rientra nella logica delle cose: i prodotti dell’artigianato di eccellenza sono, infatti, rivolti a persone interessate alla qualità e alle prestazioni dei prodotti stessi, piuttosto che al prezzo di acquisto. Ciò permette agli artigiani d’eccellenza di possedere un’ottica sul lungo periodo, senza puntare alle vendite immediate», concludono gli autori della ricerca, coordinati da Laura Taveggia, e guidati dal direttore accademico, Maurizio Dallocchio.
Tornando invece all’Osservatorio Aub sulle aziende familiari italiane, elaborato tenendo conto di tutte le imprese facenti parte dell’Aidaf – l’Associazione italiana delle aziende familiari fondata diciannove anni fa – si nota come siano anche qui le imprese tramandate di generazione in generazione a rappresentare il gruppo più nutrito. Su sedicimila aziende con un fatturato superiore ai 22 milioni, più di diecimila sono a controllo familiare, praticamente il 65,1 per cento, con fatturato di 790 miliardi di euro e un valore aggiunto di 177 miliardi. «E non sarà certo un caso se nei settori della moda e dell’arredamento, si registrano alte presenze di aziende a conduzione familiare», ricorda Guido Corbetta, autore della ricerca, che aggiunge: «Il bello di queste aziende è l’essere diventate un punto fermo, capace di attrarre i creativi, coinvolgendoli anche per anni. L’identificabilità dell’interlocutore è fondamentale».
Potrebbe essere questo l’identikit della Moroso, l’azienda di design d’alta gamma, a Cavalicco, vicino Udine, dove la collaborazione tra progettisti e impresa è frutto di più lustri. «Ron Arad, lo scultore col quale lavoriamo da venticinque anni, è ormai uno di famiglia, così come Massimo Iosaghini, un fumettista reinventatosi designer sulla strada per Cavalicco», racconta, sorridendo, Roberto Moroso, seconda generazione, con sua sorella Patrizia, dell’azienda fondata dal padre, Agostino, nel 1952. «Mio padre, che ha 85 anni, da buon tappezziere, è ancora lì che controlla ogni minimo particolare, affinché tutto sia a posto; mentre zio Marino – il fratello di Diana, mia madre – ieri come oggi realizza a mano, con scalpello e martelletto, i prototipi dei divani», aggiunge l’amministratore delegato di un’azienda di 135 persone e con un fatturato di 30 milioni di euro.
Ma il bello delle imprese storiche risiede anche nel saper portare gli anni con stile. Esiste un elenco delle magnifiche 100 ultracentenarie: dall’acciaieria di Alessandria, la Mino Spa, del 1840, ai profumi Paglieri, del 1876 (stesso anno del bergamasco Cotonificio Albini) e della stessa città piemontese; dal calzaturificio Lario, fondato nel 1898 nel Comasco, alla cartiera di San Mauro Torinese, Burgo Group, del 1905, nata un anno prima della Zambon farmaceutici.
Che a novembre prossimo festeggerà i suoi primi 110 anni. «Probabilmente nel nome di Alberto, mio papà, figlio di mio nonno Gaetano, il fondatore della nostra impresa farmaceutica», racconta Elena Zambon, presidente dell’omonimo gruppo, e a capo dell’Associazione italiana delle aziende familiari. Per la numero uno della casa fondata a Vicenza, «i due aspetti meno brillanti delle aziende a conduzione familiare – la timidezza mostrata nel voler crescere attraverso nuove acquisizioni e l’età elevata delle persone che le conducono – potrebbero trasformarsi in chance di crescita, a patto che si mostri coraggio, sia nel delegare ai manager alcuni settori strategici, sia nel passare il testimone ai più giovani».
Il passaggio di consegne
Sulla tenue presenza dell’universo femminile ai vertici aziendali, Zambon ritiene che «se si trattasse di scelte dettate da pregiudizi, perderemmo quella che il sociologo Mauro Magatti chiama la generatività relazionale; altrimenti, non ne farei una questione ideologica – il principio che l’importante è che ci sia una donna – ma di merito». Nel viaggio nel tempo alla ricerca del dividendo della bellezza da non disperdere, scopriamo che, nel Biellese, «Piacenza 1733» non è uno slogan pubblicitario. «Esiste un contratto di lavoro di un mio trisavolo nel quale è riportata questa data, ed è conservato nel nostro archivio», spiega Carlo Piacenza, dodicesima generazione del lanificio di Pollone, con il fiore di un cardo essiccato nel logo. «Il cardo è tuttora lo strumento principale con cui garziamo la lana: è stato Jean-Louis Dumas, storico ceo di Hermès, a suggerire a mio padre, negli anni 50, di inserirlo», ricorda l’ad, cresciuto tra telai, tintorie e vasche. Molti di questi pezzi fanno parte oggi di una collezione d’archivio, il fiore all’occhiello della fondazione, la cui sede, nella casa paterna dei Piacenza, è retta da Milly, la zia di Carlo, e nipote di Felice, il fondatore, nel 1911, del lanificio-scuola di Biella.
Dal Piemonte al Comasco, ecco Alberto Novarese, terza generazione della Saati, azienda del settore tessile chimico: 850 dipendenti, fatturato di 115 milioni di euro, e forse il vero cambio di passo per le aziende di famiglia. Spiega il presidente: «Negli anni 50, mio padre, Carlo, ex preside e geografo mancato, per rafforzarsi volle acquistare un’azienda concorrente a due passi dalla nostra; ed è stato sempre lui a suggerirmi di far seguire l’azienda da un manager esterno. Un’occasione per staccarsi dai problemi quotidiani, mantenendo comunque un monitoraggio a distanza». Nell’attesa che le nuove generazioni crescano.