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 2015  dicembre 22 Martedì calendario

Davvero internet può fermare l’Isis?

L’accademia militare di West Point, che ha un dipartimento intitolato Combating Terrorism Center, è stata la prima a rivelarlo: lo Stato Islamico ha un manuale di 34 pagine per addestrare i terroristi all’uso dei social media senza essere intercettati. La donna della strage di San Bernardino, Tashfeen Malik, giurò fedeltà all’Is su Facebook poco prima di aprire il fuoco per fare 14 morti. Nelle zone della Siria occupate dai jihadisti, secondo le testimonianze raccolte dal settimanale tedesco Der Spiegel, l’accesso satellitare a Internet è “offerto” da aziende hi-tech europee come Eutelsat (Francia), Avanti Communications (Inghilterra), Ses (Lussemburgo). È possibile che la potenza tecnologica dell’Occidente debba esserci rivolta contro? Perché la Silicon Valley non ci aiuta?
Dopo le uscite di Donald Trump su “chiudere Internet”, era forte la tentazione di liquidare il dibattito come un’altra sbandata demagogica del candidato repubblicano; o peggio, come una pericolosa deviazione verso forme di censura più adatte a regimi autoritari (Cina, Russia, Iran, già di fatto “chiudono Internet” quando fa comodo ai rispettivi governi). Invece Trump aveva colto un problema reale, sia pure semplificandolo con i suoi slogan rozzi. Hillary Clinton ora non dice cose molto diverse: «Ci serve tutto l’aiuto di Facebook, YouTube, Twitter. Non possono permettere che degli utenti sofisticati di Internet usino i loro social media per reclutare terroristi o addirittura per guidare gli attacchi. I social media devono negare spazio a questi gruppi». Barack Obama dopo la strage di San Bernardino ha rivolto un appello simile alla Silicon Valley: «Farò pressione sulle aziende tecnologiche perché aiutino le forze dell’ordine a rendere più difficile l’impunità dei terroristi». Obama non ha in mente solo delle segnalazioni puntuali quando vengono intercettati messaggi relativi ad attentati. Il presidente vuole estendere l’azione a tutti i messaggi che diffondono la cultura della violenza: «Mentre Internet cancella le distanze tra le nazioni crescono gli sforzi dei terroristi per intossicare le menti di giovani come i due fratelli ceceni che misero le bombe alla maratona di Boston, o la coppia di assassini di San Bernardino».
Resta preoccupante il divario tra questi appelli, e la capacità reale di “bonificare” i social media dai messaggi del terrore. Un’altra candidata alla Casa Bianca, che non ha la popolarità di Trump nei sondaggi ma conosce bene la Silicon Valley essendo stata la chief executive di Hewlett-Packard, è Carly Fiorina. All’ultimo dibattito tv tra repubblicani ha sollevato anche lei questo tema, con una denuncia allarmante: «La tecnologia che usa il nostro governo è molto più arretrata di quella dei terroristi». Ma non è solo il Pentagono o la Cia o l’Fbi ad avere qualche ritardo. In realtà perfino gli “hacker buoni” hanno rimediato una figuraccia di fronte a quelli dell’Is. Anonymous dopo la strage di Parigi aveva lanciato un appello con gli hashtag #OpParis e #OpIsis, per cancellare gli indirizzi dei jihadisti su Twitter. L’operazione ha dato risultati modesti, e qualche infortunio. I seguaci dell’Is riaprono sotto altri nomi gli indirizzi che gli vengono chiusi. E tra gli account “cancellati” da Anonymous sono finiti quello della Bbc e di alcuni centri universitari che fanno ricerche sul terrorismo.
La verità è che questa battaglia sarà vinta solo se cooperano i colossi della Silicon Valley. I quali hanno tenuto finora un atteggiamento ambiguo, riluttante. Gli esperti della Casa Bianca individuano tre possibili livelli di controllo di Internet in funzio- ne di prevenzione del terrorismo. Il primo consiste nell’affidarsi all’auto-regolazione da parte dei Padroni della Rete: Apple, Google, Facebook e Microsoft dovrebbero mobilitare le loro squadre di esperti per vigilare su eventuali segnali minacciosi, e segnalarli alle autorità. Lavoro titanico, obiettano i
chief executive della Silicon Valley, i quali ricordano che ogni giorno più di un miliardo di utenti si collega a un social media. Il secondo livello consiste nell’apertura di “backdoor”, letteralmente porte di servizio, dalle quali l’intelligence e la polizia possano intercettare anche i messaggi criptati. L’obiezione viene da Tim Cook, numero Uno di Apple: «Una volta aperte le backdoor, da lì può entrare chiunque, non solo il governo». In altri termini verrebbe ridotta la sicurezza di tutti gli utenti, alla mercè di hacker. L’obiezione è discutibile visto che Apple e Android (Google) hanno introdotto le tecnologie criptate su tutti i software dei loro smartphone solo dal 2014: prima non le consideravano così essenziali. Infine il terzo livello preso in considerazione dalla Casa Bianca darebbe alle forze dell’ordine un accesso a tutti i database dei social media. I contrari sottolineano che un accesso così vasto e indiscriminato sarebbe probabilmente anti-costituzionale. E il modo più facile di aggirarlo sarebbe, per i jihadisti, il ricorso a piattaforme digitali e social media non americani.
Tutto il dibattito è viziato però dall’influenza politica esorbitante della Silicon Valley, e dal suo status quasi intoccabile, soprattutto per i democratici. L’ex portavoce di Obama Jay Carney oggi lavora per Amazon. L’ex stratega elettorale del presidente, David Plouffe, è al soldo di Uber. Le loro difese della privacy suonano ipocrite, quando i Padroni della Rete violano e saccheggiano i nostri messaggi a fini di marketing. Un osservatore lontano, Rohan Gunaratna della Nanyang Technological University di Singapore, ha commentato che «in Asia se un governo fa una richiesta a un’azienda tecnologica, questa equivale a un ordine». In America è vero il contrario. Gunaratna descrivendo la prassi asiatica non si riferisce solo a un regime autoritario come la Cina, include democrazie come l’India e la Corea del Sud.
In America nessuno ha obiettato a “chiudere Internet” contro un altro nemico: la pedo-pornografia online, deballata quasi completamente. Quel precedente oggi ispira un’iniziativa di legge bipartisan. La firmano la senatrice democratica di San Francisco Dianne Feinstein, e il repubblicano Richard Burr. Il disegno di legge impone «l’obbligo per i social media e le aziende digitali di allertare le forze dell’ordine se hanno qualsiasi segnale di attività terroristica». La Feinstein precisa che «non si tratta di criminalizzare la libertà di parola, bensì di prendere atto che i terroristi usano i social media, e aggiornare il nostro arsenale di strumenti». È la stessa senatrice democratica, che conosce bene il problema, a citare il precedente: «Stiamo proponendo contro la propaganda jihadista dei mezzi già collaudati contro la pedo-pornografia. Qualcuno vuole spiegarci perché no?».