Corriere della Sera, 22 dicembre 2015
Riflessioni sull’addio al bipolarismo nel XXI secolo
Il Ventunesimo secolo sta cambiando il volto delle democrazie europee. Forze politiche uscite dal nulla ottengono grandi successi, i partiti tradizionali dotati di storia e pedigree arrancano con fatica, il «nuovo» e il «vecchio» si mescolano e si contaminano a vicenda.
Le elezioni spagnole confermano una tendenza in atto da tempo.
I partiti tradizionali non scompaiono ma devono vedersela con forze di nuovo conio. I popolari restano primo partito ma perdono tanti voti. Podemos, nuovo partito di sinistra, con poco più del venti per cento dei consensi, diventa la terza forza del Paese a una incollatura dai socialisti. Quarta è ora la nuova formazione di centro, Ciudadanos.
Si confronti il risultato spagnolo con ciò che è accaduto in Italia e in Francia. In Italia, alle ultime politiche (2013), i Cinque Stelle diventano primo partito alla Camera dei deputati (con 8 milioni e settecentomila voti) e sono oggi il più temibile sfidante di Matteo Renzi. In Francia il vecchio Fronte Nazionale, profondamente rinnovato da Marine Le Pen, sta sfidando la gauche e la droite tradizionali.
Tra i grandi Paesi europei, solo Gran Bretagna e Germania mantengono le fisionomie politiche antiche, del XX secolo. Ma, nel caso della Germania, un esame più ravvicinato mostra che sotto la superficie ci sono forze che premono per venire allo scoperto: la Spd, il partito socialdemocratico, il più antico partito socialista d’Europa, sta sperimentando da anni un drammatico declino e la Cdu di Merkel deve guardarsi ogni giorno dal rischio che, su euro e immigrazione, si affermi un agguerrito competitore.
Il successo di nuove forze politiche segnala che il XX secolo è davvero finito. Le vecchie ideologie sono morte e ne patiscono i partiti che, nel secolo precedente, se ne erano fatti interpreti. I partiti tradizionali bollano come «populisti» i partiti nuovi ma questo appellativo non ha alcun significato. Segnala il dispetto di chi, perdendo consensi, vuole impedire l’ingresso nel proprio club esclusivo a nuovi soci con l’argomento che essi non conoscono le buone maniere, non sanno stare seduti come si deve a tavola. Le nuove forze non minacciano la democrazia che è un regime flessibile, con grande capacità di adattarsi ai cambiamenti. Ma se la democrazia non è minacciata, tuttavia, il carattere poco liberale o francamente illiberale di alcune delle nuove formazioni fa pensare che le libertà personali potrebbero subire in futuro una sensibile erosione.
La cosa che più colpisce molti sembra essere il tramonto del bipolarismo. Il futuro che ci attende è un futuro di frammentazione, per il fatto che la competizione da bipolare (destra e sinistra tradizionali) è diventata stabilmente tripolare, obbligando così alla formazione di governi di coalizione? Oppure le cose sono più complicate di così?
Cominciamo col dire che nella tradizione europeo-continentale la frammentazione e, per essa, i governi di coalizione, sono la regola, e i governi monopartitici l’eccezione. Ciò è vero non solo nel caso delle piccole democrazie (si pensi alla Svizzera, al Belgio, all’Olanda o alla Finlandia) ma anche nel caso delle grandi. La Germania ha sempre avuto governi di coalizione. La loro stabilità, almeno fino ad oggi, è stata il frutto di due circostanze: un governo istituzionalmente forte (il Cancellierato) e la presenza (quasi sempre) nella coalizione di governo di un partito nettamente più forte degli altri, capace di egemonia.
L’Italia ha conosciuto – dalle elezioni del 1994 a quelle del 2008 – una fase di competizione bipolare fra destra e sinistra che tuttavia non ha mai permesso, a causa della frammentazione interna sia della sinistra che della destra, la formazione di governi monopartitici. L’irruzione dei Cinque Stelle ha posto fine a un bipolarismo fragile e con poche radici nel Paese.
La Spagna è un caso diverso: il suo bipolarismo è stato un bipartitismo di fatto (due partiti che si alternavano al potere, più alcune piccole formazioni regionali) dalla nascita della democrazia alla fine degli anni Settanta del secolo scorso fino ad oggi. La fine di quel bipolarismo/bipartitismo, ancorché annunciata, fa impressione. La democrazia spagnola sembra destinata a passare da una fase di stabilità (governi monopartitici di legislatura) a una di endemica instabilità. La Francia è un caso ancora diverso. Grazie alle riforme golliste che diedero vita alla Quinta Repubblica, con il semi-presidenzialismo e il sistema maggioritario, la Francia è relativamente al riparo dai rischi di instabilità endemica che corrono le democrazie parlamentari. Oltre a tutto, la più recente riforma (la contestualità dell’elezione del presidente e del Parlamento) ha reso meno probabile di un tempo l’avvento di quelle (inefficienti) «co-abitazioni» fra destra e sinistra che la Francia ha sperimentato in passato. In virtù di quelle forti istituzioni neppure il duello fra il lepenismo e le forze più tradizionali dovrebbe scuotere la democrazia francese.
Escludendo la Francia, guardando alle sole grandi democrazie parlamentari, si arriva alla conclusione che nessuna di esse (tranne la Spagna per un certo periodo) sia riuscita ad imitare il Regno Unito e il suo bipartitismo. La Gran Bretagna, in alcune rare occasioni (governi laburisti di minoranza degli anni Settanta, coalizione conservatori/liberali prima delle elezioni del 2015), non è riuscita a esprimere governi monopartitici ma si è sempre trattato di incidenti di percorso, brevi parentesi, facilmente riassorbite grazie all’azione combinata del sistema elettorale maggioritario e della tradizione culturale dell’isola. Continua a non esserci in giro nulla di più solido del bipartitismo britannico.
Alcuni ritengono che il bipolarismo – a maggior ragione quando diventa bipartitismo come in Gran Bretagna o nella Spagna di ieri – e i governi monopartitici di legislatura, finiscano per irrigidire troppo la democrazia. Pensano che l’instabilità prodotta da un quadro politico frammentato sia un prezzo equo da pagare per avere maggiore flessibilità e anche governi (di coalizione) più rappresentativi dei variegati orientamenti dell’opinione pubblica. Dimenticano però una circostanza. È vero che i governi monopartitici di solito non rappresentano la maggioranza degli elettori, il loro predominio parlamentare è artificiale, prodotto da meccanismi elettorali maggioritari.
Ma è anche vero che la stabilità assicurata dai governi monopartitici permette (non sempre ma qualche volta sì) di contrastare almeno in parte il difetto più grave della democrazia: l’orizzonte temporale troppo ristretto. Se chi governa sa che potrà farlo per poco tempo, data la natura instabile della coalizione, si preoccuperà solo del consenso qui e ora, non avrà a disposizione un orizzonte temporale sufficientemente ampio per impostare programmi di più lungo respiro.
Le democrazie europee stanno subendo radicali cambiamenti, come è inevitabile che sia tenuto conto di come è ormai diverso il mondo del Ventunesimo secolo rispetto a quello del Ventesimo. Forse se la caveranno meglio quelle democrazie (come la Gran Bretagna o la Francia) che hanno innalzato forti barriere protettive, potenti ostacoli maggioritari contro cui si infrangono le onde dell’instabilità.