Corriere della Sera, 22 dicembre 2015
Spagna, il Psoe si ritrova al centro dei giochi proprio nell’ora più nera
La barbetta, il sorrisetto, il codone di Pablo Iglesias sono su tutti i televisori della sede del partito socialista. «Pare proprio che il Psoe intenda accordarsi con il Pp per la grande coalizione...» insinua il capo di Podemos. Un muggito indignato percorre le stanze di calle Ferraz. Centralino e sito raccolgono centinaia di proteste dalla base: «Con i franchisti mai! Vogliamo un governo di sinistra!».
Al primo piano, Pedro Sánchez è riunito con i 40 membri dell’esecutivo. Anche loro stanno guardando Iglesias in tv. Il segretario tenta di tastare il terreno su un’eventuale apertura che potrebbe portarlo al potere. E si scontra con un muro di no. I baroni del partito non ne vogliono sapere: con Iglesias mai, e neppure con Rajoy; meglio l’opposizione. Ma i più duri verso Podemos sono gli uomini del fondatore, che qui dentro conta ancora parecchio: Felipe Gonzalez.
Il vecchio premier e il giovane rivoluzionario si detestano. E non lo nascondono. «Mi sono mancati una settimana di campagna elettorale e un dibattito» sta dicendo con uno sguardo allusivo Iglesias. Qui al Psoe tutti capiscono che è una citazione e una frecciata a Felipe, che con le stesse parole giustificò la sconfitta del 1996 contro Aznar. «Iglesias è uno Lenin 3.0» ha detto Gonzalez nell’ultimo comizio nella sua Siviglia. E ancora: «Un giorno sta con Chávez, un altro con la socialdemocrazia danese. La sua politica è frivola. La sua proposta di un referendum sull’indipendenza catalana è irresponsabile. Accetto volentieri le critiche in buona fede; non le lezioni di gente legata a un Paese straniero».
Un accanimento ai limiti dell’odio. Ricambiato. Iglesias ha definito Gonzalez «un personaggio moralmente decrepito». L’ha fatto fischiare in ogni discorso pubblico. L’ha additato come il simbolo di una sinistra clientelare e rinunciataria, come il grande vecchio della casta, come il capo occulto di un partito corrotto e conservatore tanto quanto la destra: «I miei nonni sono morti con la tessera socialista in tasca. Ma quanto è cambiato quel partito...».
Il Psoe si ritrova al centro dei giochi proprio nell’ora più nera. Nelle grandi città – Madrid, Valencia, Barcellona – è solo quarto, dietro anche a Ciudadanos. Ha perso quasi sette milioni di voti in sette anni. Si è più che dimezzato rispetto alla seconda vittoria di Zapatero (che non conta più nulla): allora in Catalogna conquistò 25 seggi; ne conserva appena 8. Non a caso Carme Chacón, l’ex ministro della Difesa con il pancione, donna forte dei socialisti catalani, esclude l’accordo con Podemos: «Chi voleva il referendum sull’indipendenza ha già lasciato il partito».
La presidenta andalusa Susana Díaz non è venuta. Ma ha mandato un uomo di fiducia, vicino anche a Gonzalez, Antonio Pradas, che dice: «Dobbiamo assolutamente sfuggire all’abbraccio mortale dei populisti. Questi ci mangiano». Sulla stessa linea il presidente dell’Estremadura, Guillermo Fernandez-Vara: «Ci divorano». Andalusia ed Estremadura sono le uniche regioni in cui il Psoe è arrivato in testa. E sono le regioni più povere della Spagna. Le più spagnoliste. Del resto, i secessionisti sono sempre i ricchi, in questo caso catalani e baschi; i poveri restano attaccati alle mammelle dello Stato. «Un accordo con Podemos e con la Sinistra repubblicana di Catalogna sarebbe un suicidio nel resto del Paese» dice Pradas. Il presidente di Castiglia-La Mancha, Emiliano García-Page, che pure governa con l’appoggio di Podemos, è sulla stessa linea: «Un governo con undici partiti è un pasticcio». L’unico possibilista in privato è il presidente della Comunitat valenciana Ximo Puig.
Sánchez cerca di portare a casa un risultato minimo: rinviare in primavera il congresso, previsto per febbraio; «sia chiaro che io non me ne vado». In caso di elezioni anticipate il candidato del Psoe sarà ancora lui. Un’ipotesi che non piace alla Díaz, che punta a prendersi il partito. Al congresso del 2012 l’andalusa aveva appoggiato il candidato perdente, Eduardo Madina. Con lui Sánchez non è stato generoso: l’ha messo al settimo posto in lista a Madrid, dove il Psoe ha conquistato solo sei seggi; si tenta di indurre un eletto a rinunciare. Lo scontro continua fino a quando il segretario non manda fuori il numero 2, César Luena, a dire intanto che i socialisti voteranno no alla candidatura Rajoy. E se il premier facesse un passo indietro e il Pp presentasse un altro candidato? Nessuna risposta.
L’idea di un’alleanza di sinistra ha un forte potere evocativo per i militanti, e Iglesias lo sa. Dice che la priorità è evitare un governo del Pp. Propone a tutti gli altri un patto per riscrivere la Costituzione. E lo chiama «compromesso storico», un’espressione sconosciuta al lessico politico spagnolo, copiata da Berlinguer di cui il capo di Podemos è grande estimatore: il 9 dicembre ha twittato la foto del libro che stava leggendo, La questione morale. Lui e Gonzalez si confrontano anche su questo. «Avremo un Parlamento all’italiana, purtroppo senza italiani capaci di gestirlo» aveva predetto l’ex premier.
Resta una sola alternativa a nuove elezioni: un accordo con i popolari. Non necessariamente un governo. Un’astensione, in favore di un presidente che non sia Rajoy. «Convergenze parallele» scrive El País citando Aldo Moro. Un’ipotesi per il Psoe molto rischiosa: Iglesias si presenterebbe come l’unica opposizione, ancora più attraente per l’elettorato metropolitano e di opinione. Ma la Spagna non può pensare di essere un’isola in un mare tranquillo. L’Europa – e la Merkel – hanno già cominciato a premere perché nasca un governo capace di consolidare la ripresa, mantenere gli impegni, salvare l’unità nazionale: l’idea della secessione catalana non piace a nessuno. Tanto meno a Gonzalez.