Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2015
Una libro sulla pubblicità che non solo rispecchia passivamente ma intercetta desideri inconfessabili, anticipa umori ancora semi-sommersi
La pubblicità oggi contiene tutto – trasgressione, autoironia, sperimentazione formale – tranne una cosa: la realtà. Questo l’assunto di Necrologhi di Maria Nadotti (il Saggiatore), originale racconto satirico dell’Italia contemporanea – corredato da foto – attraverso le rèclame. Dietro l’apparente rivoluzione dei modelli di ruolo – tutto un fiorire di manager lacrimosi e fragilissimi, di donne in carriera indurite e aggressive – rispuntano le vecchie regole del gioco e stereotipi appena ribaltati. I corpi delle pagine pubblicitarie sono perlopiù astratti, seriali, un tantino macabri, privi di eros e di vita: irreali (necrologhi). Da loro viene accuratamente espunto ogni riferimento alla realtà, che può essere certamente grigia, inospitale, frustante, ma che appare sempre contraddittoria, mentre quei simulacri di corpi non presentano contraddizioni. In questo senso andrebbe ridimensionata l’accusa di sessismo e offesa alle donne rivolta a tanta pubblicità. Il celebre manifesto Dolce&Gabbana che per molti era una istigazione allo stupro di gruppo (mentre analogo manifesto Diesel ne proponeva l’esatto contrario) evoca invece un quadro di Magritte, con i personaggi un po’ mortuari, da paesaggio postatomico, che sembrano capitati lì per caso e vogliono solo essere guardati.
Ma l’originalità del punto di vista consiste qui nell’evitare ogni moralismo pur nell’esercizio di una radicale moralità dello sguardo (la pubblicità è un «dispositivo intrinseco all’economia di rapina in cui viviamo»), e nel rinunciare a qualsiasi crociata autoassolutoria. La pubblicità funziona non tanto perché è manovrata da persuasori occulti quanto perché ci piace, ci somiglia in modo imbarazzante, parla di noi, di come vorremmo diventare, e del nostro essere consumatori/trici, inclini a lasciarci cannibalizzare dal desiderio, a essere trasformati dal prodotto in oggetti di invidia per gli altri, allo scopo di poterci amare. Dunque occorre responsabilizzarci, andare all’origine dei nostri mali.
L’autrice rilegge immagini e spot pubblicitari con acume critico e un pizzico di fascinazione per la visionarietà del proprio oggetto, applicando una immaginazione semiologica sfrontata e spiazzante, che ricorda il primo Barthes. Ad esempio quando nota che nella stessa pagina di «Repubblica», «giornale-partito tutto savianerie, intercettazioni piccanti, elenchi di domande inevase all’allora primo ministro» sono allineate una vignetta di Bucchi con 5 figure raggomitolate in posizione fetale (rifugiati politici) e nella parte inferiore la foto di una modella sensuale nella stessa posizione (en passant : se oggi Pasolini fosse vivo – autentico tormentone di ogni convegno su di lui – stigmatizzerebbe non tanto l’ovvio berlusconismo quanto i magazine di tendenza dei nostri principali e democraticissimi quotidiani, veicolo dell’ideologia reale, che celebra tutti gli idoli sociali: unica felicità concepibile è quella del consumo!).
In particolare Maria Nadotti non nasconde l’idiosincrasia per la edificante pubblicità sociale o progresso, che pretende di venderti visioni del mondo e stili di vita virtuosi. Quasi sempre allarmistica e intimidatoria. E in genere per tutta la pubblicità che sfrutta proprio i nostri migliori sentimenti per venderci un prodotto: si vende solo se si è umanitari e ambientalisti, e dalla parte dei deboli (ma ogni atto di persuasione al consumo resta comunque un «sublime inganno»). Straordinario il paragrafo «Gas», a proposito degli articoli invisibili, assenti dalle pubblicità perché, illegali o nocivi o «poetici», e che comunque si vendono (la domanda scavalca l’offerta): dalle armi alla bicicletta e al fumo (se questo nuoce gravemente alla salute «qualcuno ci sta gridando nelle orecchie che la libertà di farci male da soli, nessuno è ancora riuscito a togliercela»).
Torniamo alla premessa del libro. La pubblicità non solo rispecchia passivamente ma intercetta desideri inconfessabili, anticipa umori ancora semi-sommersi. Nell’Uomo senza qualità Musil osserva che se l’umanità fosse capace di fare un sogno collettivo sognerebbe Moosbrugger, il serial killer sanguinoso dal volto bonario. La pubblicità ci permette continuamente di fare sogni collettivi – meglio se ipersemplificati –, siano essi di guerre lontane o di paesaggi molto brutali (per risvegliare i sensi atrofizzati) o di improbabili paesaggi edenici. E soprattutto ci promette di liberarci da noi stessi e dalla nostra insostenibile pesantezza, da come siamo, dai nostri corpi obsolescenti e terminali. Qui la moda intreccia il suo segreto legame con la morte, come aveva già intuito un nostro Classico: crea e disfa ogni cosa per confermare solo se stessa. I corpi pubblicitari, identici e spettrali, esangui ed estetizzati, non esposti a usura, macchine sterili senza tempo, risultano eterni, come Nosferatu.