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 2015  dicembre 20 Domenica calendario

Sigillo, il borgo di duemila anime che passerà un brutto Natale. Aveva 35 milioni di euro di risparmi depositati nella minifiliale di Banca Etruria

È incastonato tra i valichi dell’Appennino, uno dei gioielli della defunta (e rinata) Banca Etruria. A Gualdo Tadino, cittadina della provincia di Perugia, un’imponente rocca medievale abbarbicata su un costone di roccia, famosa per l’Acqua Rocchetta (quella di Alessandro Del Piero e di Miss Italia), oggi piangono e maledicono quella fusione che nel lontano 1987 aveva maritato una semi-sconosciuta «banchetta» locale, la loro Popolare di GualdoTadino, con l’allora Popolare dell’Etruria e del Lazio. 
In mezzo ai monti, al confine con le Marche, lungo la via Flaminia, Banca Etruria aveva uno zoccolo duro di clienti. Che passeranno un brutto Natale. L’appuntamento è nella piazzetta davanti alla chiesa di San Donato, il salotto della città: un ex dipendente della banca, dietro garanzia di anonimato, è disposto a raccontare un pezzo di Italia di provincia: «Qui tra Gualdo, Sigillo, Fossato di Vico e le piccole frazioni di montagna, quasi tutti hanno il conto con la Banca Etruria». Sono i vecchi clienti della Popolare della città, finiti poi sotto l’insegna della banca di Arezzo. «Nel gergo si chiamano filiali di raccolta. Lei non immagina nemmeno quanto risparmio ci sia, da queste parti». 
Proviamo, allora, a immaginarlo: il borgo di Sigillo, ancor più rintanato sotto il massiccio dell’Appennino, che qui supera i 1500 metri, conta 2532 abitanti. Piccolissima, ma antichissima (la cita Plinio nella Naturalis Historia) stazione di posta lungo al via romana. Ma con un record invidiabile. Nella lillipuziana filiale di Banca Etruria, dove lavorano appena 4 persone, ci sono depositati risparmi per 35 milioni di euro. Eccolo, il gioiello. Terre di contadini e pastori, cultura atavica di risparmio e sacrifici. E di attaccamento: qua la banca è come la casa o l’orologio, se la passano di padre in figlio. Tutti si conoscono, tutti si fidano della banca del paese. Il direttore è come il prete o il medico: uno a cui si parla apertamente e, soprattutto, a cui si dà ascolto. «Qui la gente la Banca Etruria, che alcuni chiamano ancora la Popolare Gualdo, ce l’ha nel cuore, la sente come qualcosa di suo». Mai avrebbe sospettato di veder svanire i propri risparmi. La banca esisteva da 140 anni, praticamente da sempre nei ricordi della gente del posto. In un paesino di 2mila anime, ma 35 milioni di euro di risparmi, ci sono 1,6 milioni dei famigerati subordinati. Soldi svaniti. 
Com’è stato possibile? Era il giugno 2013, ricorda l’ex bancario, e «tutti i colleghi della zona fummo convocati. Ci dissero che avremmo dovuto vendere i titoli subordinati». Niente minacce o obblighi, «ma sapevamo che era fondamentale collocarli, il pressing psicologico era forte». E nemmeno premi o soldi in più, come incentivo. «L’emissione, ci era stato spiegato, avrebbe messo in sicurezza definitiva la banca». E così fu. «Impiegammo pochissimo tempo, un paio di giorni». Tutto molto semplice. Clienti storici avevano in portafoglio da decenni bond e titoli della banca. Coincidenza, in quel periodo scadevano molti bond senior di quegli stessi clienti. A molti fu chiesto semplicemente se volessero rinnovare i titoli in scadenza. Solo che in quel fatidico giugno non era un semplice rinnovo, non erano i soliti titoli senior, quindi sicuri. Erano i famigerati subordinati. «Chiedemmo appositamente se potevamo venderli a chi aveva i senior: ci dissero di sì». 
Nessuno scupolo? «Noi abbiamo fatto il nostro dovere. I titoli li abbiamo sempre venduti seguendo le direttive Mifid». Ai dipendenti la banca aveva sempre rassicurato che anche nel caso peggiore quei titoli non sarebbero mai stati toccati. «Noi eravamo i primi a credere nella banca» dice con fierezza. «I dipendenti a Gualdo avevano tutti investito personalmente azioni e titoli dell’Etruria. Anche nei subordinati». E non perché da Arezzo li avessero imposti. «Ma perché eravamo convinti della loro bontà. Li abbiamo fatti sottoscrivere anche ai parenti; io ai miei suoceri». 
Possibile che nessuno chiese informazioni? Tutti firmarono a scatola chiusa, sulla parola? «No, ci furono persone che volevano sapere. Ma noi ripetemmo quello che a nostra volta ci era stato spiegato dai vertici della banca: il titolo aveva lo stesso livello di rischio di un default della banca». A quella risposta, ricorda, «tutti sorridevano». Come si sorride davanti alle ipotesi assurde. «Nessuno, noi dipendenti per primi, immaginavamo che la banca sarebbe fallita».