La Lettura, 20 dicembre 2015
La Sagrada Família completa? Forse nel 2026
Dunque, la Sagrada Família verrà finalmente completata. A un secolo dalla morte di Antoni Gaudí, il suo cantiere sarà chiuso. In una recente conferenza stampa, il responsabile dei lavori di Barcellona, Jordi Faulí, ha annunciato che nel 2026 quella monumentale architettura religiosa verrà «compiuta»; e sarà la più alta d’Europa. Si stanno terminando sei nuove guglie, una delle quali accoglierà una grande croce.
Come reagirebbe il visionario maestro catalano di fronte a questo epilogo, che sembra andare contro le sue stesse intenzioni? Forse, disapproverebbe.
La sua grande sfida, infatti, era quella di costruire un’opera infinita, destinata a rimanere aperta, che possiede una morfologia poetica segretamente vicina a quella dell’ Ulisse di Joyce. Gaudí vi si dedica dal 1892 fino alla morte (1926), agendo come un creatore totale, sapiente nel pensare e nell’agire contemporaneamente da costruttore, da scultore, da pittore e da artigiano: egli definisce strutture, plasma masse, modula contrasti cromatici, modella mosaici, ceramiche, ferro battuto. Distante dalle mitologie razionaliste, anticipatore degli espressionismi e dei decostruttivismi novecenteschi, Gaudí elabora un edificio la cui qualità è innanzitutto iconica. La sua, come ricordava Argan, è «un’architettura di pura immagine»: tratta i diversi materiali come impalcature indispensabili per sostenere un involucro decorativo. Siamo dinanzi a un’avventura «visiva», ricca di assonanze con quella di Klimt. Un esercizio arguto e laborioso che, nel recuperare le tradizioni del gotico e del barocco, si consegna a noi come territorio della meraviglia e dello stupore.
Nell’affidarsi al potere della fantasia, Gaudí progetta un tempio introdotto da una facciata storta e seduttiva, «imbellettata come una donna di malaffare» (è stato detto), e dominato da guglie sbilenche, ritorte, di matrice cubista. Incurante dei problemi statici, questo tempio sembra sempre sul punto di disfarsi, di sciogliersi, di crollare: è colto in una sorta di agonia in atto, come logorato da tormenti millenari.
Con gusto per l’arbitrio e delirio immaginario, impegnato a dare sfogo a una sfrenata libertà ludica, questo «mandriano di pietre, lenone di sassi, confessore di ciottoli, conduttore di rocce» (come lo chiamò Manganelli) si porta al di là dei limiti dell’architettura classica. E, con furia e impeto onirico, ne aggredisce lo scheletro, increspandone e rendendone fluttuanti i profili. Fino a trasformare quel luogo sacro in uno spazio ipnotico, stregato. Come un rudere protostorico del XX secolo. Come un reperto dell’inconscio affiorato in superficie. O come una caverna venuta alla luce dal sottosuolo. Una cattedrale paradossale: equivoca, quasi peccaminosa. Che, con slancio mistico, si protende verso l’alto.
Momento decisivo, in questa scandalosa sperimentazione, è la volontà di Gaudí di dar vita a un’opera che, pur se (parzialmente) risolta e conchiusa, si offre in maniera differente a ciascun fruitore. Che è invitato a «integrarla» con la sua cultura, con il suo gusto, con la sua sensibilità, con i suoi pregiudizi. Per decifrare il testamento intellettuale di Gaudí, infatti, lo spettatore deve adottare uno sguardo strabico, deviato; e spostarsi continuamente, in modo da scorgere aspetti inattesi. Così proverà la medesima sensazione che lo accompagna quando si misura con l’ Ulisse joyciano: un cosmo finito, eppure senza centro, nel quale ogni avvenimento si trova in una relazione possibile con gli altri che lo sfiorano.
Senza mai cessare di essere se stesso, il Templo ci chiede di essere visto attraverso angolazioni non congruenti. È come un’opera in perenne movimento, governata dalla precarietà dei rapporti tra le diverse parti. Perfettamente calibrato, questo organismo può rivelarci sempre risonanze e aspetti ignoti. Attende di essere interpretato in mille modi diversi, senza che la sua inviolabile singolarità ne risulti scalfita.
Ma Gaudí vuole andare oltre. Intende la Sagrada Família come un work in progress. Un set in divenire. Un’opera aperta, appunto. Che ciascuna generazione, per decenni e forse per secoli, avrebbe potuto arricchire, sviluppare, modificare. Sempre nel rispetto, però, della «griglia» definita da questo sofisticato cultore delle allegorie. Il quale, mentre concede a coloro che verranno dopo di lui la possibilità di far «crescere» la Sagrada Família, sembra animato da un’incondizionata fiducia nella dimensione eterna dell’arte.
2026: questa bellissima e impossibile utopia verrà infranta.