La Lettura, 20 dicembre 2015
Parla Kristian Hammond, l’uomo che ha inventato il giornalismo automatizzato
Nel 2012 Kristian Hammond, fondatore e chief scientist di Narrative Science, il padre del «giornalismo automatizzato», fece una previsione: entro cinque anni il premio Pulitzer di giornalismo a un articolo scritto da un giornalista-robot. Da allora sono passati tre anni. Molte testate, soprattutto sportive, pubblicano da tempo articoli usando la tecnologia di Narrative Science. E una società della North Carolina che ha seguito le sue orme, Automated Insights, fornisce tremila articoli al mese in materia finanziaria all’Associated Press, la maggiore agenzia di stampa americana, e altro materiale a Yahoo!. Per ora resoconti ricchi di dati ma dalla struttura piuttosto elementare.
Incontrando questo geniale accademico-imprenditore (Hammond insegna computer science alla Northwestern University di Chicago, dove ha fondato il laboratorio di intelligenza artificiale) è difficile non partire da quella previsione che brucia sulla pelle di ogni giornalista.
Restano due anni: conferma la sua previsione?
«L’ho fatta e non la ritiro, ma probabilmente quell’articolo non sarà scritto da noi. La mia azienda ha cambiato rotta, di giornalismo ci occupiamo ormai assai poco. Oggi abbiamo un modello di business che è basato molto più sull’informazione commerciale e finanziaria, le analisi e la comunicazione delle aziende che hanno bisogno di macinare un gran numero di dati trasformandoli in discorsi comprensibili».
Sembra la descrizione del lavoro fin qui affidato ai «data scientist». Tre anni fa la «Harvard Business Review» ha messo questo mestiere in cima alla hit parade delle professioni più sexy del mondo. Oggi automatizzate pure quello.
«Siamo circondati da un oceano di dati, molti dicono che con quelli che verranno generati dall’“internet delle cose” (decine di miliardi di apparecchi intelligenti, dall’auto al frigo, dal tostapane allo spazzolino da denti, tutti oggetti che produrranno informazioni, ndr ) annegheremo nei dati. Io, invece, vedo in questo la ricchezza del nostro futuro. Ma quei dati vanno selezionati, interpretati. Quelli rilevanti sono quelli che possono essere trasformati in linguaggio. E non avremo mai abbastanza data scientist per farlo».
Qualche tempo fa, in effetti, i ricercatori del McKinsey Global Institute hanno previsto che entro pochi anni si manifesterà una carenza di 140-190 mila esperti di analisi dei dati.
«Esatto. Con le imprese che sposteranno sempre di più i loro modelli organizzativi verso l’uso dell’intelligenza artificiale, non mancherà di certo il lavoro per questi professionisti: gli unici che hanno la capacità di capire bene sia gli obiettivi e gli interessi di un’azienda, sia il modo in cui funziona e può essere utilizzata la tecnologia dell’intelligenza artificiale. Il nostro software li sostituisce parzialmente, è vero, ma lascia loro la parte più complessa del lavoro. Anche nell’editoria, del resto, il robot non cancella il redattore».
Lasciate il giornalismo perché avete scoperto che è un business poco redditizio o perché vi siete resi conto che la vostra tecnologia non è poi così adatta al lavoro delle redazioni?
«Beh, non è proprio un abbandono. Abbiamo ancora contratti con diverse organizzazioni giornalistiche negli Usa e anche in Europa: in Francia, in Gran Bretagna. Ma adesso le nostre priorità sono altre, per tutti e due i motivi menzionati nella sua domanda: i margini di redditività del giornalismo sono molto bassi e noi, come ogni altra azienda, cerchiamo di andare dove c’è denaro. Ma è anche vero che ci siamo accorti che l’uso migliore della nostra tecnologia non è nell’editoria. Nel giornalismo si punta a scrivere una storia sola, con uno stile riconoscibile. Un pezzo che deve essere letto da molti. Noi, invece, scriviamo un gran numero di versioni della stessa storia. Puntando più sulla completezza e l’accuratezza dei dati, il loro collegamento, che sullo stile. A volte questi pezzi vengono letti da molta gente, ma la tecnologia del nostro algoritmo brilla quando riusciamo a scrivere un articolo personalizzato per ogni singolo lettore, sapendo quali sono le informazioni più rilevanti per lui».
Lei aveva fatto anche un’altra previsione: entro il 2025 il 90 per cento degli articoli pubblicati in America scritti da un computer anziché da un giornalista in carne e ossa.
«Succederà, magari anche prima, ma questo non minaccia il suo mestiere, stia tranquillo. Ci sono testate che pubblicano un gran numero di articoli sugli incontri sportivi scolastici e universitari, sulle informazioni locali o su quelle aziendali. Voi non scrivete articoli per un piccolo gruppo: magari 50 persone. Tutti lavori che con software come il nostro, Quill, o con quelli dei nostri concorrenti (Wordsmith di Automated Science o Dreamwriter della Tencent, ndr ) possono essere fatti non solo a basso costo, ma anche in modo assai capillare, con molta più rapidità e accuratezza».
Infatti. Tempo fa il «Los Angeles Times» ha pubblicato un breve articolo su una scossa sismica avvenuta appena tre minuti prima. Informazioni complete, ma elementari: magnitudo della scossa, epicentro, distanza dalle città californiane più vicine, i precedenti. La vostra promessa, però, sembrava essere quella di un’intelligenza artificiale capace di cambiare stile, di aggiungere brillantezza agli articoli.
«Già oggi i nostri software consentono al computer di scrivere in diversi stili, non è particolarmente complicato. Ma non è questo il valore aggiunto che noi possiamo offrire. Noi prendiamo i dati, una quantità sterminata di dati, estraiamo quelli essenziali e li trasformiamo in parole, li rendiamo comprensibili. Ma i dati sono sempre il fattore essenziale nel nostro lavoro. Il problema con il giornalismo è che anche voi vi occupate di dati, ma per voi non sono così essenziali, o non lo sono sempre. Conta più la storia che ognuno di voi costruisce. I vostri sono, in un certo senso, prodotti su misura. Con Quill anche noi raccontiamo una storia, ma basata sui numeri. E anche noi cerchiamo di fare un prodotto su misura per ogni singolo utente, ma solo nel senso di dare a ognuno i dati che riteniamo gli siano più utili».
Non c’è dubbio che guardate lontano. Basta scorrere l’elenco degli investitori che hanno scommesso su di voi: dal gigante del software Sap a In-Q-Tel, la società di venture capital della Cia, sempre presente dove ci sono tecnologie d’avanguardia che possono essere utili all’intelligence.
«La capacità di estrarre da un gran numero di dati quelli effettivamente rilevanti, e di farlo rapidamente, è cosa che interessa molta gente, e in molti campi. Diciamo pure che stiamo cercando di umanizzare le macchine anziché meccanizzare la gente. L’idea è quella di sviluppare un sistema molto umano, che capisce le esigenze degli utenti e mette alla loro portata, rende accessibili, dati assai complessi senza obbligare queste persone a dotarsi di competenze professionali molto impegnative da conseguire».
Affascinante, ma effettivamente non vicinissimo al giornalismo. Magari il reportage automatico dovrà rinunciare al Pulitzer...
«Non lo darei per scontato. Non sottovaluto l’importanza del giornalismo, anche quando prescinde dalla stretta interpretazione dei dati. Conversazioni, osservazioni e descrizioni sono altrettanto importanti. Ma poi, se dal computer esce un articolo pieno di dati capace di cambiare la vita di centinaia di migliaia di persone, perché quella storia non dovrebbe vincere il premio più ambito?».