il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2015
«L’Umor nero» di Michele Ainis
Anagrafe. L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier Renzi contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: “Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova”. E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti. Da qui la trovata che illumina il Jobs Act: via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. (…) Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per i maggiorenni.
Diritti Benvenuti al supermarket dei diritti. (…) Diritti di prima generazione: alla vita, alla proprietà, ai commerci. (…) E poi: diritto alla salute, alla previdenza, all’assistenza, all’istruzione. E la terza generazione dei diritti? Ha a che fare, da un lato, con il processo di universalizzazione dei diritti umani, aperto nel 1948 – dopo la tragedia della guerra mondiale – dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Dall’altro lato, vi confluisce la pressione di nuove istanze collettive, dalla difesa della privacy alla tutela dell’ambiente, dai nuovi diritti nella sfera delle comunicazioni al diritto d’esercitare l’obiezione di coscienza. Ma non è finita, perché i diritti hanno un’inesauribile capacità generativa. Stiamo entrando nel paradiso dei diritti? Dipende: potrebbe anche trattarsi dell’inferno. In questo caso ci entreremmo da ubriachi, perché si va consumando – in Italia come altrove – una vera e propria sbornia di diritti. Basta allungare lo sguardo sui progetti di legge depositati in Parlamento nel corso del 2014. Diritto allo sport (Pietro Laffranco). Diritto alla bellezza (Serena Pellegrino). Diritti degli animali (Loredana De Pretis). Da qui un’avvertenza, anzi due. Primo: nessun diritto è a costo zero. Come hanno scritto due studiosi americani (Holmes e Sunstein), la libertà dipende dalle tasse. Più diritti, più tasse. Secondo: i diritti non sono a somma zero. Se decidiamo di proteggere i diritti degli animali, rinunciamo (in parte) al diritto alla sperimentazione e alla ricerca.
Europa Nel 1989 Sciascia pubblicò Una storia semplice; nello stesso anno l’Austria chiese l’adesione alla Comunità europea, ennesimo capitolo d’una storia viceversa complicata. Perché l’Europa non è un ordinamento; è “un disordine di procedure e strutture”, come ha osservato Andrea Manzella. Con competenze che si sovrappongono, con un profluvio di organismi, con trattati che s’aggiungono senza fare mai tabula rasa del trattato precedente, con la “procedura di comitologia” (regola l’esecuzione degli atti normativi) e con tutte le diavolerie che rendono le istituzioni europee incomprensibili per i comuni mortali. (…) Il virus burocratico che l’Europa si è allevata in seno ha generato regolamenti sulla lunghezza delle banane e dei cetrioli (rispettivamente nel 1994 e nel 1988), direttive sulle dimensioni del sedile dei trattori (il caso si è verificato nel 1978), norme sul diametro delle vongole (il regolamento è del 2006, e ha ormai messo in crisi i pescatori dell’Adriatico). Con la sua mania legiferatrice, l’Europa ha affastellato regole sui recipienti semplici a pressione, i decibel dei tosaerba, gli aromi alimentari, la qualità delle acque destinate alla molluschicoltura, le percentuali di calcio o di magnesio nei concimi. Di più: non si contano i provvedimenti varati nell’arco di un decennio (dal gennaio 1989 all’ottobre 1999) per stabilire infine che la camicia da notte può essere indossata anche di giorno: ne era pure nato un contenzioso in sede doganale. La giuridicizzazione delle camicie da notte è figlia della tecnocrazia, e la tecnocrazia corrisponde al programma originario dell’Europa. Perché il deficit democratico dell’Ue non rappresenta un incidente di percorso, bensì il percorso stesso. (…) Domanda: c’è spazio per la democrazia dei cittadini nell’arsenale europeo? Il suo strumento più tipico e incisivo – il referendum – suona tuttora come una bestemmia, e infatti ne è vietato l’uso. In compenso il Trattato di Lisbona ha introdotto l’iniziativa legislativa popolare, fissando il quorum di un milione di firme. Ma in realtà si tratta di una pre-iniziativa, cioè di un invito rivolto alla Commissione a presentare una proposta: in pratica, una supplica al sovrano. Ciò nonostante, il nuovo istituto sta raccogliendo un buon successo, con quasi 30 iniziative proposte durante il primo anno di applicazione. L’Europa ha ancora un popolo che la sostiene, che bussa al suo portone del diritto. Ma quel portone ha bisogno di un falegname, con il suo scalpello, per grattare via il superfluo.
Riforme Ogni vent’anni noi italiani rivoltiamo il mondo come un calzino usato, ripetendo la marcia su Roma. E ogni marcia inaugura una palingenesi civile, poi politica, poi costituzionale, perché infine ridisegna l’architettura delle nostre istituzioni. E allora ricordiamoci anzitutto delle camicie nere, dei fasci littori, del regime. Il suo manifesto programmatico era inciso nel motto pronunziato da Benito Mussolini il 28 ottobre 1925: “Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”. Da qui un’ideologia totalitaria, di cui Hitler fu il più feroce imitatore. (…) Vent’anni dopo, è l’inizio della storia: dopo la Resistenza, la cacciata del tiranno, la pace ritrovata. E questo merito epocale attribuisce ai partigiani il buon diritto di riscrivere le regole del gioco, di forgiare nuove istituzioni. Il 1º gennaio 1948 entra in vigore la Carta repubblicana, con la sua doppia promessa di democrazia e di libertà. (…) I primi anni Settanta aprono la stagione in cui la Costituzione finalmente viene attuata, generando i suoi frutti migliori: lo Statuto dei lavoratori; il divorzio; la riforma del diritto di famiglia; quella penitenziaria, fiscale, sanitaria; l’equo canone per proteggere meglio gli inquilini; la parità tra uomini e donne nei rapporti di lavoro. Vent’anni ancora, e arriva Tangentopoli. Un altro terremoto. La decapitazione – elettorale e giudiziaria – di un intero ceto di governo. E nella società civile un’ansia di legalità, che però dura appena il tempo d’un fiammifero. (…) Da qui la seconda Repubblica, retta tuttavia dalla Costituzione della prima. Perché di nuovo edifichiamo una Costituzione materiale – di stampo plebiscitario e populistico – opposta a quella formale, senza prenderci il disturbo di metterla almeno per iscritto. Come avere due mogli, convocandole a turno per la cena. Una bigamia costituzionale. Sicché adesso siamo qui, davanti all’ultima curva del circuito. Karl Marx diceva che la storia si ripete due volte: prima in tragedia, dopo in farsa. Attenzione, perché stavolta potrebbe succederci il contrario. Per evitarlo, dobbiamo trasferire nella nostra cittadella pubblica la domanda che sale dalla società italiana, altrimenti il tappo finirà per saltare. È una domanda di trasparenza, di morigeratezza, d’eguaglianza. Non sono poche le riforme necessarie per assecondare quest’ultima stagione della nostra storia. Proviamo a scriverle, tra vent’anni suonerà di nuovo la campana.