il Fatto Quotidiano, 20 dicembre 2015
Sabina Cevoni, l’infermiera dell’eutanasia che assiste chi vuole addormentarsi per sempre
Sabina Cevoni, infermiera professionista e sociologa italiana 55enne, vive e lavora da dieci anni a Ginevra, dopo aver prestato servizio in molte zone di guerra per la Croce Rossa internazionale. Da due anni fa l’accompagnatrice volontaria per l’associazione elvetica Exit che aiuta chi vuole ottenere il suicidio assistito. “Ho visto molte persone soffrire invano perché condannate a morte certa, senza avere la possibilità di mettere fine alla propria vita in modo dignitoso. Anche mio fratello, malato di schizofrenia, si è suicidato da solo, con il rischio di sopravvivere rimanendo invalido. Per questo ho deciso di iscrivermi a Exit”. Finora la Cevoni ha assistito trenta malati di cui dieci hanno mantenuto la decisione di bere la soluzione di Pentobarbital che li traghetta dal sonno alla morte. “Ci sono alcuni malati che tra il primo e secondo colloquio cambiano idea e decidono di aspettare, rasserenati dalla consapevolezza di poter avere questa chance”. La sua missione inizia quando riceve la telefonata da Exit che la informa delle generalità della persona che intende porre fine alla propria esistenza. A quel punto la signora va a incontrarla. “In genere mi trovo di fronte a malati di tumore o di Sla e altre patologie che portano all’immobilità totale. Da poco possiamo aiutare anche gli anziani affetti dalla cosiddetta polipatologia senile. Durante questo primo colloquio mi faccio raccontare la loro vita, i loro obiettivi e spiego che ci sono delle alternative al suicidio come le cure palliative che tolgono il dolore fisico. Il problema è che queste persone soffrono molto anche sotto il profilo psicologico perché spesso non sono più autonome: è questo quello che li spaventa di più”. Se il malato decide di andare avanti si fissa un secondo appuntamento per testare se è determinato ad andare avanti. Se sì, la Cevoni torna per la terza volta con il farmaco: “Si può procedere alla somministrazione del barbiturico solo se un medico testimonia che la persona è affetta da malattia incurabile, se si è verificato che il malato non è stato costretto a fare questa scelta da parenti, amici o conoscenti. Io come accompagnatrice non devo avere legami di parentela”. Il Pentobarbital diventa mortale quando la dose supera i 3 grammi. “Per garantire il decesso si diluisce una dose 4 volte più alta di quella letale. Prima di porgerla al paziente, che la dovrà bere portandosela da solo alla bocca (per questo si chiama suicidio assistito, tollerato grazie all’articolo 114 del codice di procedura penale svizzero, ndr) diamo un antivomito, dato che il Pentobarbital è molto amaro”. Dopo due o tre minuti dall’assunzione il paziente si addormenta profondamente e dopo circa mezz’ora il suo cuore smette di battere. Tre minuti possono essere un tempo brevissimo e assieme lunghissimo per chi sta dando addio alla vita e ai propri cari. “Se sono presenti i parenti talvolta esco dalla stanza ma quasi sempre mi chiedono di rimanere. In quei pochi minuti parliamo ancora ricordando gli episodi positivi e gioiosi della loro vita. Non ho mai visto uno di questi malati piangere mentre assume il farmaco o appena dopo. Sono i parenti o gli amici a soffrire di più in quegli attimi”. Sabina sta combattendo anche una battaglia per rendere possibile il suicidio assistito anche ai malati di patologie mentali: “Queste persone possono soffrire molto, come è accaduto a mio fratello”.