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 2015  dicembre 20 Domenica calendario

Pietro Sermonti, che voleva giocare da Platini «e non ero affatto male»

Una famiglia sgangherata, e non è certo il suo caso. Pietro Sermonti, da attore, è al centro di un decentrato gruppo di parenti scombinati, allegri, vitali, tanti bambini, tanti dolori. Una villetta che odora del mare acido di Fiumicino e storie da raccontare in 26 puntate chiuse in 13 serate. Tutto può succedere, Raiuno da domenica prossima, è il remake del successo americano Parenthood adattato al gusto nostrano, coproduzione Raifiction-Cattleya, regia di Lucio Pellegrini con Maya Sansa, Ana Caterina Morariu, Alessandro Tiberi, Camilla Filippi, Fabio Ghidoni e con Licia Maglietta e Giorgio Colangeli. Il brano della sigla, testo di Giuliano Sangiorgi, è interpretato dai Negramaro, mentre gioca un ruolo cardine all’interno delle puntate una canzone trascinante di Raphael Gualazzi.
Sermonti, eccola alle prese con un’altra famiglia, dopo «Un Medico» che le regalò la sua prima popolarità. Però qui sembra a suo agio come era in «Boris». Analogie?
«Le ritrovo nell’intensità e nella libertà di racconto. Dopo lo Stanis di Boris per mille anni mi hanno offerto sempre roba di quel tipo. Allora ho pensato di smettere e ora cerco corde più dure».
Parla della sindrome di Asperger di cui è affetto suo figlio nella fiction?
«Ho avuto una sorella che se ne è andata presto, avevo bisogno di fare un’esperienza emotiva forte. L’80 per cento delle coppie che si trovano ad avere un figlio affetto da questa malattia si lascia, non ce la fa. Ho una cugina neuropsichiatra infantile, esperta del ramo, e mi ha spiegato. Volevo che le famiglie come la mia della serie, si sentissero capite, spronate a indagare. Mai far finta di niente. I dolori bisogna affrontarli, solo così ci si pulisce dentro».
Le serie che ama?
«La mia serie culto è Six Feet Under. Anche mio padre dice che è come Guerra e pace. Pensare che l’interprete di Nate, Peter Krause, mi ha scritto una dedica ma come personaggio: “A Stanis with love”. Fantastico. Mi piacciono molto anche Mozart in the Jungle e Curb your Enthusiasm di Larry David, geniale».
E adesso come si sente?
«Al dente, pronto a cogliere le opportunità migliori. Ho prodotto un disco di musica popolare di altissimo livello e ora è arrivato il momento di scrivere un mio film. Tanto ho resistito alla mia indole da autore da far diventare l’alibi dell’attore un mestiere vero, scritto sul 740. Il protagonista sarà un bambino, sugli umori di Anche libero va bene, perché quello che siamo ce lo tatuiamo addosso da piccoli».
Ma lei non si era tatuato una vita da calciatore?
«Ed ero niente male, numero 10, discepolo di Platini, uno dei più grandi artisti del ’900, niente da invidiare a Nureyev o Zidane e De Niro. Poi succedono cose o le devi far accadere».
Torniamo alla famiglia, la sua è importante, imparentato con gli Agnelli, suo padre Vittorio, un grandissimo dantista. Alleggerisce o appesantisce?
«Sono cresciuto leggendo i classici russi che hanno i tempi d’assorbimento che offre una fiction. Mio padre era il mio più grande tifoso, sognava di vedermi giocare. A 19 anni ho smesso con la scusa di un incidente. Ero pigro, viziato, vanesio. Non avevo la tigna e neppure il corpo giusto. La fantasia c’era ma non bastava più. Un amico mi disse che fisicamente ero meglio come lanciatore di coriandoli che come giocatore nelle giovanili della Juventus. Però ero bravo».