La Stampa, 20 dicembre 2015
Le porcherie delle banche tedesche
La più grande banca tedesca si chiama Deutsche Bank: tra tutte le multinazionali, è quella che le Borse del mondo valutano peggio. La seconda si chiama Commerzbank: si regge grazie a una partecipazione dello Stato al 15,6%, per ora un pessimo investimento.
Però in Germania diversi esperti si proclamano convinti che le aziende di credito italiane abbiano l’acqua alla gola. Per questo ieri la Banca d’Italia si è affrettata ad assicurare del contrario. È proprio una lotta dura, sulla strada che dovrebbe condurci a un sistema bancario unificato dentro tutta l’area euro.
Tornando indietro all’inizio della crisi finanziaria, il contagio dei “titoli tossici” americani lo hanno portato in Europa le banche tedesche. Non tanto la Deutsche, che a Wall Street chiamavano «il più grosso hedge fund del mondo», ma sapeva cavarsela abbastanza; piuttosto le sue banche regionali.
Si legge nei ricordi di un finanziere Usa che quando c’era da piazzare un titolo ad alto rischio, bastava chiamare una banca regionale tedesca: quelli compravano tutto a scatola chiusa.
Negli anni successivi, sono state infatti le banche regionali (Landesbanken) a rivelare le passività più gravi. Si tratta di istituti controllati dagli enti locali della Repubblica federale, al vertice del sistema delle Casse di risparmio, dove molto contano i partiti, specie i due maggiori, cristiano-democratici e socialdemocratici. E quando si prestano molti soldi agli amici degli amici, ci si guadagna poco; occorre rifarsi con impieghi ad alto rendimento, come erano i “titoli tossici”.
Forse avrebbero fatto così anche ad Arezzo o a Ferrara, se avessero saputo bene l’inglese... O piuttosto può averglielo impedito la Banca d’Italia, più seria rispetto all’ente di vigilanza tedesco, il Bafin, a cui molto sfuggiva.
Sta di fatto che le Landesbanken si erano cacciate in guai seri. Una è scomparsa del tutto, la WestLb della ricca regione Renania-Westfalia, assorbita da un’altra. Altre sono state pesantemente ricapitalizzate dalle regioni proprietarie; come la Hsh-Nordbank di Amburgo, caso di cui si è parlato perché la Corte di giustizia europea ha respinto il ricorso di due azionisti di minoranza, secondo cui si trattava di illegittimi aiuti di Stato.
Nell’interpretazione tedesca, in sostanza, nella prima fase della crisi finanziaria gli aiuti di Stato erano possibili, dopo no. La Germania ufficialmente ha impegnato in salvataggi 248 miliardi; non è ancora possibile farne un bilancio ma è realistico ritenere che una trentina almeno siano stati bruciati, a carico dei contribuenti tedeschi.
Invece a suo tempo le banche italiane, soprattutto, gli aiuti non li hanno voluti. Non solo quando glieli offriva Giulio Tremonti, del quale temevano le intromissioni, ma quando era disponibile a concederne il governo Monti. Spesso inoltre i gruppi dirigenti hanno preferito restringere le attività piuttosto che ricorrere ad apporti di capitale esterni.
Ora i nodi venuti al pettine in alcuni istituti locali mal gestiti danneggiano l’immagine all’estero dell’intero sistema creditizio italiano. In diversi modi, gli interessi di parte dei poteri bancari hanno aggravato la crisi all’interno dell’area euro. Ma all’origine di tutto ci fu il no tedesco a una ricapitalizzazione collettiva di tutte le banche europee; con la conseguenza ben riassunta dalla battuta scurrile dell’allora presidente francese Nicolas Sarkozy, «à chacun sa merde».