la Repubblica, 20 dicembre 2015
La New York di Romagnoli
Finché ci saremo non ci arrenderemo, vedremo il peggio uscire dalla nostra specie, rischieremo di annullarci, ma lo eviteremo, l’abbiamo sempre fatto, siamo una storia di millenaria sopravvivenza a scapito della barbarie. Perfino nella selezione della violenza ha vinto la parte migliore, sempre: anni, decenni di orrore, poi la luce. Non ce ne accorgiamo perché diamo risalto a quel che ferisce, ma non abbiamo mai smesso di andare avanti, e continueremo. In nome di quel che siamo e del poco che amiamo: respirare, pensare, dedicare. Non ci ha protetto niente che non avessimo in noi.
New York è la nostra capitale, non ne abbiamo altre, il resto sono infatuazioni passeggere, disegni abbozzati, ripieghi. In un’alba invernale, seduto a una scrivania rossa, guardo la luce strisciare lungo la schiena dei grattacieli per farsi strada e annunciare che si ricomincia. Vedo il porto, dove la storia è iniziata, chiunque sia stato, criminale o santo, a sbarcare per primo. Non l’avevo amata, la parte bassa di Manhattan. Fino agli Anni Novanta era un recinto di fantasmi notturni. Non ci viveva nessuno e se ci passavi di sera calpestavi un lastrico di stress. Lo potevi sentire, come un karma depositato nei cestini dei rifiuti: tutti quegli esseri che di giorno impazzivano a Wall Street e negli uffici finanziari, che uscivano a fumare sul marciapiede lasciando cadere cenere d’insoddisfazione, aggressività e paura. Strati di amarezza che non si dissolvevano al tramonto, ma restavano lì, nella scia di giacche svolazzanti all’ingresso della metropolitana. Un luogo che attirava il male e che l’ha infine patito.
Ci sono tornato a cinque giorni dal crollo delle torri gemelle. Ho osservato il cratere da lontano, ma in posizione sopraelevata. Non ricordo nulla di quel che ho visto, è rimasto soltanto un odore, incancellabile perché unico: quello della massa fusa di metallo, vetro, carne, stoffa, plastica, capelli, carte, unghie, terra invasata, marmo, organi non più vitali. Si è depositato nel cervello non in forma di memoria ma di memento. E ha sprigionato l’ennesima pulsione di amore per quel che ha sofferto. Ho scelto di stare lì, ogni volta che fossi tornato a New York, a trecento metri da un buco, poco più in là di niente, a meno di zero. Ho guardato mentre portavano via i resti della maceria, pensandola al singolare, come un enorme cadavere. Ho visto innalzare le barriere e sentito per anni, incessante, a qualunque ora, il rumore del cantiere. Ho guardato i progetti affissi all’esterno, li ho visti cambiare e non ne ho amato uno solo. Avrei preferito lo spazio, un lago, del verde, una torre sì, ma di luce, dal tramonto all’alba. Un’illusione, ma concordata. Invece hanno tirato su questa, perfino spaventati nel chiamarla “Libertà”, preferendo alla fine darle come nome un indirizzo enigmatico: 1 WTC. L’ho percepita come un’intrusa, la seconda moglie Rebecca. L’hanno inaugurata con una sfilata di moda, anziché con un concerto. Mi sono girato dall’altra parte, verso il ponte di Brooklyn.
Poi una mattina mi sono accostato, l’ho guardata da sotto, ho scoperto le diagonali, i giochi di linee e luci: solo da vicino comunicava. Ho comprato il biglietto per salire in cima, sull’osservatorio. Niente di speciale: un ascensore supersonico, una terrazza oscurata dove si proiettano le immagini più scontate di New York. Poi il sipario si apre e sotto c’è la città. Tutta, come non la puoi vedere da nessun altro punto, né dall’Empire State Building né dal Top of the rock. Mentre la guardavo mi si è formata una frase in testa. Non l’ho pensata, l’ho letta. Diceva: «Ci siamo ripresi il cielo».
Era il senso delle cose in cui ero immerso, di quei 14 anni trascorsi nella vita di ognuno. Era la cosa giusta da fare e, per una volta era stata fatta. Sbagliavo io: non bastavano un parco, una fontana, una lapide, non bastava la terra per riaffermare la libertà e il coraggio senza i quali la vita è soltanto una parodia. Bisognava riprendersi quello spazio che non ci apparteneva eppure ci siamo conquistati, rimettere le cose esattamente al loro posto: uomini al centesimo piano, a guardare giù, in nome e per conto della specie, della sua parte migliore, quella che si fonde nel fuoco e riaffiora dal sangue. Non una nazione, una specie: noi, quando siamo vivi e ce lo meritiamo. Da Beirut a Calcutta, da Parigi e Kigali, ma soprattutto qui, in fondo a New York, dove non doveva esserci più niente e invece, guarda, siamo qui, alza gli occhi e credici: ci siamo ripresi il cielo.
È passato un anno, come da programma ho tracciato una visione del mondo attraverso 50 città. Nel frattempo la lista dei Paesi che ho visitato è salita a 76. Mentre leggete sarò a Bratislava, aprirò gli occhi nella stanza di un ostello chiamato Freddie next to Mercury. Dal letto accanto mio fratello dirà: «Ricordami perché siamo finiti qui». Perché non siamo finiti. Qui.
Infatti non finisce qui. Resta ancora una pagina, un viaggio. Che, a differenza degli altri, non ho mai fatto.