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 2015  dicembre 20 Domenica calendario

Vita e pensieri di Giuseppe Bevilacqua, germanista

Certe vite interessanti si rivelano anche dal modo in cui ne ascoltiamo la voce. Quella di Giuseppe Bevilacqua – germanista eccellente, saggista, autore di un paio di romanzi misconosciuti e di una raccolta di poesie apprezzata dall’amico Zanzotto – mi arriva dalla profondità dei suoi quasi novant’anni. Lo incontro a Cercina fuori Firenze dove vive in un grande casa tra molti ulivi. Della tenuta si occupa Barbara, una tedesca di Lubecca, che mi attende con la sua utilitaria fuori dalla stazione di Santa Maria Novella. Il cielo sembra una lastra di ghisa. «È un cielo tedesco», dice Barbara. «Anche a Lubecca dove c’è il mare il cielo a volte è di una tristezza infinita. È una delle ragioni che mi fa amare l’Italia». E infatti Barbara vive qui e ha sposato il grande germanista, da cui ha avuto due figlie. Lubecca, è stata la prosperosa città affacciata sul Baltico. Vi nacque Thomas Mann che vi ambientò I Buddenbrook. Chiedo se qualcuno dei Mann continua a viverci. «Bisognerebbe domandarlo a Peppino. Ma non credo. I Mann – come in una diaspora – si dispersero chi in America chi in nel resto dell’Europa». Anche Peppino è convinto che la saga dei Mann non abbia più molto a che fare con la città anseatica. È un uomo ancora bello e solido.»Non badi alle apparenze. A volte devo sdraiarmi per ripristinare una circolazione sanguigna appena accettabile e poi da anni ho invertito il giorno con la notte. Una leggera neuropatia mi costringe a star sveglio la notte e a dormire durante il giorno».
È una creatura notturna.
«Sembro un episodio minore uscito dalla testa di Novalis».
Allude agli “Inni alla notte”.
«Sono una delle porte regali del romanticismo tedesco. Potrebbe venire in mente anche la “Zaubernacht”, la magica notte di Ludwig Tieck. La verità è che non c’è niente di poetico nelle notti che un vecchio passa in bianco».
Come è nata la sua passione per la cultura tedesca?
«Fu mio padre a istillarmela. Diede a me e a mia sorella Lidia un’istitutrice tedesca. Erano gli anni Trenta. Ho avuto, come si deduce, una giovinezza agiata».
Famiglia ricca?
«Mio padre era un industriale di granaglie. L’ottimismo, tuttavia, non gli impedì di subire il classico rovescio. Uno stormo di aerei inglesi, sul finire della guerra, distrusse gli impianti della sua fabbrica. Le nostre vite cambiarono da un giorno all’altro. Ci riducemmo a vendere quadri, mobili, e gioielli di famiglia. Ricordo la desolazione della grande villa di Oderzo, non distante da Treviso, sempre più spoglia e vuota».
Come visse il cambio improvviso?
«Fu un trauma. Vedevo l’angoscia riflessa negli occhi dei miei. Oltretutto, mi ammalai di tubercolosi. Avevo diciannove anni, finii in un sanatorio non distante da Cortina. Molti dei pazienti vi arrivavano sfiniti, dai campi di concentramento. Vite esauste. Per tre anni imparai a conoscere la morte. Nel 1947, dopo un tentativo alla facoltà di medicina, mi iscrissi a lettere, all’università di Padova. E alla fine mi laureai con Ladislao Mittner».
È stato il nostro più grande germanista.
«Era nato a Fiume. Proveniva da una famiglia per metà slovena e per l’altra metà ungherese. Dominava ogni angolo, anche il più buio, della letteratura tedesca. I nostri rapporti furono di correttezza accademica prima e poi di amicizia. Sarei diventato suo assistente, ma prima mi spinse ad andare in Germania».
E dove andò?
«A Tubinga, vi rimasi per sette anni. Ebbi la fortuna di conoscere molto bene Ernst Bloch. Fu Walter Jens a presentarmelo. Jens ebbe un ruolo importante nella fuga di Bloch dalla Ddr. A poco a poco entrai nella ristretta cerchia di persone che potevano frequentarlo. E ciò fu possibile anche perché avevo iniziato a dare qualche lezione di italiano a sua moglie Karola».
Che impressione le fece Bloch?
«Aveva una competenza assoluta in campo filosofico ma anche letterario e musicale. La sua conversazione era viva, anche se a volte sentenziosa. La sua opera principale, come è noto, è Il principio speranza. Era impressionante la vastità di riferimenti storici e culturali, ma altresì la tensione speculativa, con cui legava il tutto alla sua idea di utopia concreta».
Può un’utopia essere concreta?
«Diciamo che in lui era forte la necessità di uscire dalla vaghezza del concetto. L’utopia doveva indicare una strada da percorrere, non realizzarla. Sapeva che i grandi sogni, i grandi miti applicati in modo fanatico, avrebbero prodotto solo guasti terribili, come sperimentò sulla propria pelle. E per questo vide nella speranza un principio, o meglio un sentimento, in grado di prevalere sulla paura e sul fanatismo».
Che ricordo privato ha di lui?
«Un uomo amabile ma anche capace di infuriarsi per niente. Una sera nel corridoio di casa mi venne incontro gridando parole che non capivo. E questo lo fece arrabbiare: lei mi ha mentito, lei mi ha detto di essere italiano, ma non capisce una parola di italiano. La verità è che era negato per le lingue. E il suo italiano era incomprensibile».
Per il marxismo Bloch fu l’alternativa a Lukács. So che ha conosciuto anche quest’ultimo.
«Sono stato un precoce ammiratore di Lukács. Scoprii in una libreria di Vienna i suoi saggi sul realismo. Una folgorazione. Nel 1948 il nome di Luckás mi era del tutto ignoto. Molti anni dopo gli scrissi dicendogli che sarei andato a trovarlo a Budapest. Viveva in un palazzone piuttosto squallido».
Che ricordo ha di quella visita?
 «Mi intercettò la portiera – una donna grigia e spettinata, con addosso una mantellina di lana grezza – che mi accompagnò con l’ascensore al quinto piano. Bussai e un uomo dal volto intenso e marcato aprì. In un francese perfetto mi chiese in quale lingua volevo conversare. Dissi che il tedesco andava benissimo. Lukács cominciò a parlarmi di Cesare Cases. Lo considerava un critico di straordinaria acutezza. Poi parlammo di Brecht e dell’eccessivo culto che in Occidente stava nascendo attorno a lui. Di Adorno apprezzava la critica musicale, ma aggiunse che non aveva capito nulla di Bartók, delle atmosfere plebeo-contadine che derivavano dalla sua musica. E visto che eravamo in argomento aggiunse che il più grande realista italiano dell’Ottocento fu non già Manzoni o Verga ma Giuseppe Verdi».
Com’era la casa di Lukács?
«L’ambiente appariva soffocato dai libri. Erano ovunque e ovunque si sentiva un forte odore di sigaro. A un certo punto ne accese uno. Sbuffò una nuvola di fumo e poi disse, sempre a proposito di Verdi, che nel 1919, quando era commissario del popolo, insieme a Bartók, decise di far suonare Otello. “Volevo che si capisse bene”, spiegò, “la differenza tra la storia italiana e quella tedesca, incarnata da Wagner”. Finimmo la nostra lunga conversazione su Bloch. Gli rievocai i loro incontri in casa di Georg Simmel e dell’affetto che ancora Bloch nutriva per lui. Lukács sorrise e disse: ci siamo a lungo scannati, ma ho grande stima di lui».
Intanto che ne era dei suoi rapporti con Italia?
«L’anno in cui vidi Lukács era il 1967. Da un po’ avevo iniziato l’insegnamento all’università di Firenze. Lavoravo alacremente sul romanticismo tedesco. E poi su Hölderlin e Rilke. Tradussi in rima – cosa tutt’altro che semplice – le poesie di Gottfried Benn».
Perché in rima? In fondo era una traduzione.
«È vero e del resto c’era già il pregevole lavoro di Giuliano Baioni. Ma sono convinto che nel caso di Benn la rima fosse un coefficiente essenziale per comprendere la sua lirica. E la fatica, per non scadere nel banale, fu enorme. Quasi quanto quella che mi fu richiesta nell’affrontare l’opera poetica di Paul Celan».
Su Celan torneremo tra un momento. Al suo rientro in Italia chi frequentava?
«Quando potevo tornavo nei luoghi di origine dove vedevo spesso Andrea Zanzotto. Da Oderzo, spesso dopo cena, partivo con la macchina per Pieve di Soligo dove Andrea viveva. Tra noi era un susseguirsi di storie. La sua raffinatezza linguistica corrispondeva al mio bisogno di trovare qualcosa di analogo nella poesia tedesca. E credo sia stata una delle ragioni del mio avvicinamento a Celan. Ma ricordo anche Giovanni Comisso. Ero giovane quando cominciai a frequentarlo nella sua casa di Treviso».
Era un personaggio particolarmente estroso.
«Totalmente. Si ricava anche dalla sua scrittura. Così bella e irregolare. Le volte in cui lo vedevo, c’era spesso il suo compagno Gigetto. Stazionava fuori casa. Sempre con la chitarra in mano. Varcavo la soglia ma lui restava fuori. Dopo un po’, sotto effetto di una certa gelosia, cominciava a strimpellare la chitarra. E Comisso udendolo e guardandomi diceva: non lo femo incazzar. Comisso morì nel 1969. Gigetto, credo, gli sopravvisse come una vestale inconsolabile. A me resta il ritratto fisico di quest’uomo che somigliava a un’effige romana. Aveva l’arte di accostarsi a un estraneo come fosse la cosa più naturale del mondo. Era stupefacente la sua umanità».
Un’umanità diversa fu quella di Celan.
«Si scende nel mondo oscuro delle tensioni psichiche».
Cosa intende?
«Celan fu un uomo speciale, un poeta grandissimo, ma al tempo stesso fragile».
Che cosa lo spinse al suicidio?
«La depressione fu una componente. Lo strazio per la morte dei genitori deportati da Czernowitz in Germania ne alimentò la disperazione per tutto il resto della vita. Ma l’altro motivo che contribuì alla decisione di togliersi la vita fu la convinzione che la poesia era giunta al termine. Tutto l’ultimo Celan visse drammaticamente questa implosione poetica».
Ci fu anche un’accusa di plagio.
«Ne soffrì, certo. Ma era del tutto infondata. Alcuni amici, tra cui Ingeborg Bachmann, si impegnarono a demolire quella fandonia. Klaus Demus arrivò a chiedere aiuto a Ernst Jünger, che aderì all’iniziativa a favore di Celan».
C’erano poi stati i rapporti con Heidegger. Il loro incontro. La stima reciproca e infine il silenzio tra i due.
«Un silenzio imbarazzante. Heidegger ammirava la poesia di Celan. Ma non si può dire il contrario».
Eppure Celan va a fargli visita nella famosa baita, nella Foresta Nera.
«Si rende conto dell’impossibilità del rapporto. Della reticenza del filosofo a riconoscere i suoi terribili sbagli politici. I due si erano visti la sera prima a Friburgo dove Celan tenne un affollatissimo reading di poesia. Subito dopo Heidegger chiese di incontrarlo. Era il luglio del 1967. Si videro in albergo. Sedettero su un divano. All’improvviso si materializzò un fotografo. Celan scattò in piedi rifiutandosi di farsi fotografare con Heidegger».
Perché?
«Fu un gesto istintivo. Sono stato molto amico di Gisele Celan. La compagna di Paul mi mise in guardia dalla diceria che i due si stimassero. Del resto, ho consultato la biblioteca di Celan. Ho visto i libri che possedeva di Heidegger. I primi avevano delle sottolineature. Ma la gran parte erano restati intonsi. Ricordo un’annotazione di Celan a margine degli Holzwege ( Sentieri interrotti): “Quello che H. scrive è falso a meno di non considerare la poesia come etimologia”».
Cosa ne pensa?
«Ho il sospetto che il modo di Heidegger di ridurre la poesia al pensiero filosofico si presti a numerosi equivoci. Celan era convinto che la poesia stava morendo e che il suo modo di poetare dovesse testimoniare la sua crisi irreversibile. Era, se posso dire, l’esperienza indicibile mescolata al furore comunicativo».
Una postura mentale contraddittoria.
«E senza via di uscita. Riassunta, potrei aggiungere da una sua frase: “Faccio luce dietro
me stesso”».
Ha ancora senso leggerlo a questa condizioni?
«È come quando Kafka scrive all’amico Pollak: “Un libro deve essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi”. Per quanto la banchisa sia spessa, la poesia può ancora spezzarla».
Il suo ghiaccio quanto si è esteso?
«Alla mia età faccio di tutto per non avvertire il gelo. Ho avuto il sole che mi ha riscaldato e il freddo di molti inverni. Ho vissuto drammi familiari e rischiato più volte di morire. Una figlia che sembrava persa e che ho ritrovato. Ogni volta che mi pareva di non farcela, qualcosa dentro mi diceva di resistere. Tanto prima o poi la notte sarebbe finita. È il fascino misterioso delle esistenze. Cui annetto la mia piccola utopia: fai quello che devi come se davvero questo sia il migliore dei mondi possibili».